Le parole spesso molto chiaramente riescono a spiegare una teoria, ma un po’ meno il sentimento.
La prima volta che ho visto i loro occhi non ho capito più un cazzo. A parte la loro estrema piccolezza, ci leggevi una profondità che non aveva fondo. Com’era possibile che così, in due piccoli spazietti, si richiudesse un mondo simile?
Ricordo che il mio cuore era già da parecchio che si sentiva pronto, ma il terrore di prendere una tranvata sul muso era sempre lì. Quindi rimandavo, e rimandavo.
La mia paura più grande non era tutto l’insieme di scuse che mi raccontavo, tipo: non ci sono mai, non vorrei togliere tempo ad altro, eccetera.
Era il fatto di non esserne all’altezza.
Per quanto ci siano state parecchie relazioni nella mia vita, avevo sempre un po’ amato con il freno a mano. Oppure avevo preso per il culo e non amato proprio. Quindi non è che fossi un’esperta sull’amore, figuriamoci sull’amore incondizionato.
Direi che… No dopo.
Dire che mi sono goduta il loro primo giorno nella mia vita mi fa un po’ sorridere, perché ho passato 24 ore sveglia nel panico totale, fingendo tranquillità con una poker face impressionante.
Ero concentrata a imparare dove fossero tutti i loro piccoli organi e com’era composto il loro corpino. Contavo addirittura le zampine quando era ovvio fossero quattro. E le ricontavo ogni volta che sentivo un piccolo rumore, per essere certa non se ne fosse incastrata una da qualche parte.
Ad ogni loro spostamento o scoperta mi sentivo di seguirle un po’ da lontano per evitare di mettere quella sorta di pressione che, anche se non parli, capita che si sente.
E vedevo queste piccole, ma giganti, orecchie girare per questa stanza che dalla loro minuscolezza sarà sembrata gigantesca sicuro.
Uscivano da una situazione di merda, tenute in vita da una ragazza su cui non avevo il minimo dubbio.
E quindi, ad alimentare il mio terrore quel giorno — senza poi contare i giorni successivi — era che vedevo queste due palline di pelo nero girovagare e non volevo altro che stessero bene. Di curarle e di essere in grado di farlo come lo aveva fatto egregiamente lei da esperta.
Ero terrorizzata che una delle due avrebbe potuto non farcela o comunque io non essere capace di accorgermi se la situazione fosse degenerata, visto il loro stato di salute incerto.
Mi veniva da piangere ad ogni piastrella che attraversavano e mi sentivo un po’ di raccontarmela su, come se fossero lacrime di felicità.
Invece sapevo essere lacrime di lacerazione.
Avevano aperto quella porta che io avevo accuratamente blindato e non lo avevano fatto piano piano o con riservatezza, no.
L’hanno completamente spalancata lasciandomi immobile, senza forza di reazione.
Ero spogliata da ogni razionalità, riuscivo soltanto a pensare: come posso fare per far sì che non succeda niente di brutto?
Ed il mio cervello mi proiettava tipo movie, le peggio cose possibili. Tipo micro gattini investiti dalle auto, quando finora non è mai successo che una macchina mi entrasse in casa… Almeno questo.
Avevano delle zampine (quattro, appunto) che definirle tali mi spaventava.
Non erano zampine. Erano stuzzicadenti pelosi.
Pesavano solo qualche grammo.
Avevano qualche settimana di vita e questo linguino rosa microscopico che spuntava fuori ogni tanto e ad ogni accelerata sempre più spesso. Avevo l’impulso di afferrarlo con le mie dita perché era bellissimo, ma dovevo trattenermi.
La ciotola dell’acqua che avevo deciso di prendere era gigantesca: ci potevo bere io con altre persone.
Loro ci stavano dentro entrambe, tutte intere, ed infatti i primi tempi ci entravano direttamente per giocare.
Ne volevo una unica grande perché nel mio immaginario avevo lo scenario di queste due gattine che sarebbero andate a bere insieme, un po’ come io e la mia amica al bar, insomma…
E infatti non mi sbagliavo.
Ero nella merda perché agli occhi del mondo avevo fatto quello che quasi tutti fanno: prendere animali domestici. Era abbastanza una cosa scontata, come potevo farmi vedere in quello stato e spiegare che avevo però fatto anche quello che tutti non fanno: lasciarmi andare.
Escludendo dall’elenco quei proprietari che non ce la possono fare manco ad essere animali di loro stessi, figuriamoci prendersene di indifesi da accudire, vedo le altre persone che hanno animali e… Spesso tendono a tenere sempre un muro di resistenza alzato, in vista di un domani.
Una sorta di protezione all’idea che tra 10, 20, 30 anni (numeri a caso) potrebbero andarsene.
E quindi quando stanno con loro riescono a rimanere, in un certo senso, lucidi e presenti.
Ecco, era quello che volevo fare io.
Me lo ero imposto, come ogni volta che “amavo” me lo ero imposto, e mi veniva anche benissimo.
Piccolo problema: non ce l’ho fatta. Non sono riuscita a farlo come tutta quell’altra branchia di proprietari di animali domestici messi come me che possono fortunatamente capirmi senza usare particolari spiegazioni.
Ma non dopo anni di convivenza, no. Io sono stata proprio un talento della rapidità: non ce l’ho fatta a tenere quel muro dal loro PRIMO momento a casa.
Ho sentito come un qualcosa scattare dentro di me, come se mi si rompesse una vena, non so…
Una sensazione come se il mio flusso sanguigno circolasse ancora più forte, facendomi pompare le tempie.
Non mi è mai venuto un infarto, ma credo di esserci andata vicino.
Le sensazioni fisiche erano fuori controllo ed ho capito di essere inguaiata.
Quello che stavano facendo era prendersi tutto.
Per quello sentivo quella sorta di pressione altissima, perché il mio muscolo cardiaco cercava di ribellarsi a una forza che non ne sarebbe mai stato in grado.
La mia reazione in generale, comunque, non è stata delle più positive, perché per i loro primi due mesi non facevo altro che piangere:
piangevo quando mangiavano;
piangevo quando mi dormivano sopra, di fianco, addosso, lontano;
piangevo quando non le vedevo;
piangevo quando erano nella lettiera alla menta;
piangevo quando si rincorrevano;
piangevo continuamente.
Avevo le borse sotto agli occhi belle accese, nemmeno anni e anni di erba e hashish sono stati in grado di compiere un risultato simile.
Mi faceva male perennemente la testa ed avevo un fascio di dolore che mi attraversava dal centro della fronte fin dentro le pupille, come due spilli perforanti.
La mia compagna è sempre stata molto delicata, specialmente nell’insultare, e credo che si sia ingoiata un bel rospo nel pensare che io fossi completamente fuori di testa.
“Ma che cazzo piangi?” Mio padre invece, con la sua delicatezza, in un certo senso riusciva a riportarmi con i piedi per terra.
Eh, che cazzo piango… Bella domanda.
Allora, il pianto, proprio per i motivi elencati sopra e per altri un po’ più egoici, non l’ho mai retto.
Non lo vedevo tanto come sfogo, quanto come o debolezza o rottura di cazzo.
Odiavo sentirmi una frignona anche quando ero incazzata e reagivo piangendo.
Però ecco, non sono mai stata abbastanza forte da riuscire o a stoppare le lacrime o a non piangere proprio.
Non avevo bisogno di un trigger motivazionale.
Ero bravissima a piangere per tutto.
Cartoni della Disney e qualche film? Non ne parliamo proprio.
Andavo avanti da prima che iniziasse, se già lo conoscevo, alla fine e spesso anche nei giorni successivi.
Ero una sorta di cuor di leone che però odiava piangere, quindi insultavo il pianto e me che piangevo.
Mi dava proprio i nervi poi piangere per la stessa scena che ormai sapevo a memoria e mi ripetevo sempre: che cazzo piangi, proprio come mio padre spesso mi chiedeva.
Con le mie gattine, però, non c’erano scene già viste.
Era tutto una prima volta.
Non avevo mai avuto animali, e loro facevano settecentomila cose simpatiche al minuto, quindi era una novità dietro l’altra ed io assecondavo questa novità piangendo.
…E ho iniziato a domandarmi per quanto si sarebbe protratta quella situazione perché, metti che il gattino ti dura più di vent’anni, che cazzo fai? Piangi tutto il giorno per vent’anni?
Avevo anche sospeso il lavoro in un certo senso perché, oltre a non volerle lasciare sole, non ero in grado di uscire di casa.
Le avevo messe come sfondo in una foto in cui sembravano un panino e pure quella foto mi rompeva il cuore.
Bene, ma non benissimo, ecco…
— E cos’è successo poi?
Il pianto non è mai finito, si è solo dilazionato abbastanza per darmi la possibilità di bermi una birra random al bar senza caragnare davanti a una sala rasa di gente.
Ma continuavo a sentirmi un po’ depressa.
Come se il loro arrivo avesse aperto il mio vaso di Pandora di trentacinque anni di pianti.
Anche se, appunto, nulla di nuovo: pur rinnegandolo ampiamente, piangevo già abbastanza.
Nei momenti in cui non piangevo, si era aperto uno spiraglio lucido però nella testa, quello dell’amore incondizionato.
Ne ho sempre sia lette tante di teorie su come dovrebbe essere, sia parlato tanto senza averlo sperimentato e finalmente lo stavo provando.
Beh, finalmente… Insomma…
Innanzitutto, l’amore incondizionato è un tipo di amore che non ho mai creduto possibile tra umani, ed infatti il loro arrivo mi ha semplicemente dato la conferma.
L’amore tra umani è spesso mentale, abitudinario, macchinato, fissato.
La spontaneità c’è solo con l’aspettativa, e l’aspettativa rasa il piatto ogni giorno in cui la coppia mangia.
Aspettativa di non essere traditi, di essere coccolati dopo aver scopato… Questo genere di aspettative.
Invece l’amore incondizionato era proprio l’opposto: amare senza pretendere nulla in cambio, amare per il semplice gusto di amare.
Nel mio caso, non c’era proprio nessun gusto nell’amare.
L’amore mi distraeva, mi portava lontano da me in una sorta di loop dannoso e non riuscivo mai a capire quando era amore e quando semplice ossessione, o se queste due robe mischiate ne davano una definizione.
Ok, con le mie gatte ho capito di quante trovate del cazzo sono stata in grado di creare.
Niente di quello che mi bazzicava nella testa era giusto, niente era reale.
Avevo fomentato il nulla per anni di vita e l’ho realizzato mentre ero immobile, piena di yogurt, su un pavimento.
Non esiste alimento che mi faccia più cagare dello yogurt (non è vero, ce ne sono tanti altri…), quello con i pezzi rigidi di frutta non ne parliamo. Osceno.
Ma alla mia compagna piace molto e figurarsi alle gattine.
Non potendo loro mangiare latticini, mi limitavo a lasciare la confezione leggermente sporca per permettere a quel microscopico linguino che volevo afferrare con le dita ogni minuto della mia vita, di sentire il gusto e, per farlo senza esagerare o senza lasciarne troppo, mi ero impastata tutta.
Pantaloni, mani, faccia. Un disastro, inguardabile.
Praticamente mentre selezionavo lo yogurt da lasciare sulla confezione mi hanno assalito.
Felicissime mi hanno calpestato.
Avevo otto zampine fresche di lettiera che mi camminavano sopra pappandosi lo yogurt addosso a me.
In quel momento di estremo disagio con lo yogurt ho capito che ero davvero nella merda.
Ho capito cos’era l’amore nella sua forma più pura e semplice in assoluto.
Penso che per provare questa forma di amore non basti andare al gattile o al canile e prendersi un animale, perché se non c’è prima una predisposizione interna non scatta quello che è scattato a me.
Negli anni io ho fatto tutto un lavoro per abbattere le paure e le resistenze, ma non pensavo di essere stata così brava a farlo.
Cioè, il cazzo, la resistenza.
Resistenza de che.
Resistenza a non buttarmi dalla finestra quando il cuore mi pompa così forte in loro presenza.
Resistenza a non buttarmi sotto un treno quando butto tre ore della mia vita per stare lontana da loro.
E sono tre ore investite per lavorare fuori casa, il resto fortunatamente lo posso fare dove ci sono loro.
Sono solo tre ore, massimo quattro lontano, eppure mi sento in una maniera orrenda. La telecamera fissata al muro non riesce ad azzittire la mancanza, riesce a silenziare solo la preoccupazione se dovessi vedere che qualcosa non va e quindi tornare di volata.
So che mi servono i soldi, se no non avrei potuto sterilizzarle e permettermi di prender loro cibo e giochi migliori, però mi sta troppo sul cazzo che devo uscire.
Non posso farcela.
Questo atteggiamento, come ormai sono la migliore a fare, è celato dalla mia solita doppia faccia, in cui quando sono in giro sembro la persona più scialla del mondo.
E quando mi chiedono delle gattine… sì, si vede che ci tengo, ma non lascio traspirare la vera me.
Ad ogni domanda urlerei a mo’ di pazza da manicomio: FATEMI ANDARE A CASA bestemmiando.
Non mi succede questo atto di follia solo quando sono con le mie persone perché so che sto dedicando loro ascolto e condivisione e quindi mi sento grata di quel tempo. Tutto il resto, che sia fare benzina, due secondi di chiacchiera con qualcuno a caso che incontri o quelle cose obbligate tipo lavorare, mi fa venire voglia di spararmi.
Crescendo sempre di più hanno perso la loro forma da gattine e stanno diventando gattone, giocano come delle matte e non fanno particolari danni, se non a quasi XXXX euro di piante che un bel giorno abbiamo deciso di portare a casa.
Non scrivo la cifra perché a ripensarci mi viene un colpo, ma era stupendo dar loro un ambiente naturale su cui poter lanciarsi e frantumare il mio estratto conto American Express in quattro minuti.
Per il resto erano e sono bravissime.
Tutto quello che ho rotto, piatti o bicchieri, l’ho fatto perché sono stata io, in preda a qualche attacco di tenerezza dei miei, a voler andare da loro o dietro di loro e mi sono sfuggiti dalle mani.
Quando mi girano attorno, ma anche quando non lo fanno, non capisco più un cazzo.
Non so più che giorno è e nemmeno che ore sono.
Il mio unico compito adesso è di interpretare tutti i loro MIAO e cercare una comunicazione che possa essere un giusto mix tra la mia lingua e la loro.
Il risultato sono una specie di versi gutturali e non, con tantissime parole inventate e spezzate a metà.
Non credo mi capiscano del tutto, però a me basta che sentano il suono della mia voce perché mi guardano negli occhi.
I loro occhi da azzurri sono diventati di un verde-giallo che ti toglie il fiato, in particolare la Bonnie, che ha ‘sta pupilla gigante che sembra sempre fatta di una droga sintetica.
Quando ci fissiamo mi chiedo spesso cosa possano provare, che anima ci sarà dentro di loro e come mai sono state destinate a me e ovviamente, quando ci penso, piango e mentre sto scrivendo che quando ci penso piango, sto piangendo.
Credo che la vita mi abbia fatto provare un qualcosa di magico che, in un certo senso, non consiglio.
Mi sono sentita spesso come un esperimento per questa vita perché, nel corso degli anni, me ne ha fatte succedere un po’ di tutti i colori e questo che sto arrivando a provare adesso ne è un po’ la somma amplificata.
Provo amore, paura del futuro, timore che possano non essere felici o stare male e così via.
Questo mi ha aperto a una tenerezza per l’indifeso che ha spaccato ogni limite.
Per quanto mi piaceva la mia corazza da dura, sono sempre stata dalla parte dei deboli.
Non ho il controllo di me stessa quando vedo un grosso far male a un debole, che sia un calcetto o una sberla.
Spesso ho restituito io al posto del debole, non ho paura di farmi male né di mettermi in mezzo.
Lasciar correre, poi, non se ne parla, perché sarebbe come dargliela vinta a chi si sfoga con gli indifesi solo perché non ha i coglioni di andare o da un più forte o da un suo pari.
Figuriamoci chi fa del male agli animali.
Credo che, se esiste una Divina Provvidenza, non deve mai far sì che io trovi qualcuno sul mio cammino che fa qualcosa, perché so già che finirei la mia vita in galera e non vedrei più le mie gattine.
Però ecco, questo per dire: mi hanno spalancato le porte a una connessione estrema con gli altri animali anche se non sono miei, e alla natura.
Con la natura l’ho sempre sentita molto forte, mentre con gli animali altrui cercavo sempre di sostenere quella mia resistenza ormai famosa (e sputtanata del tutto) perché ero terrorizzata all’idea che poi sarebbero morti e con loro se ne sarebbe andata una parte di me senza averli nemmeno vissuti, visto che non erano in casa con me.
Tutta la mia fatica è andata a farsi fottere.
L’ho capito il giorno del primo vaccino delle mie micie, quando c’era un signore con la moglie e ritiravano le ceneri del proprio cane consegnando tutti gli averi del cagnolone defunto alla veterinaria.
Come una cretina, non era ancora il nostro turno e mi ero maledetta sul perché avessi deciso di andare in anticipo e quindi vedere quella scena.
È stato straziante e sono entrata a fare il vaccino a loro che non riuscivo a smettere di singhiozzare.
Come se fosse appena morto il mio, inspiegabile.
Una volta finito, appena fuori dalla loro porta, non ho smesso: ho iniziato a pensare ai cani della mia migliore amica, a quelli che ha e che adoro e a quelli che aveva e che non ci sono più.
Me li sono ricordata come se fossero mancati quel giorno e ho continuato a piangere fino a sera. Alla sera ho poi pensato che anche quelli che ha adesso mancheranno ed ho pianto fino al giorno dopo.
Avevo degli ordini da fare per dei clienti quel giorno, ma ho annullato tutto per piangere, rimandandoli al giorno dopo. Il giorno dopo è arrivato e li ho annullati di nuovo. I clienti non avranno mangiato, boh. Cazzi loro…
Praticamente, questo non è un monologo dei soliti.
È un muro del pianto.
— Quindi, dopo tutto questo, cosa hai capito dell’amore incondizionato?
— Che fa male come una bastonata sulle gengive, ma non riesci a rinunciarci.
— E piangi ancora ogni giorno?
— No… ora sono diventata più strategica. Diluisco le lacrime su fasce orarie.
— E quando ti chiedono delle gattine?
— Sorrido. Fingo di essere normale. Questo non è cambiato.
— E dentro?
— Eh, cosa dentro?
— Sei consapevole che potresti essere una pazza?
— Sono consapevole.
Alla fine, l’amore incondizionato è questo: ti incasina, ti svuota, ti fa perdere tempo, soldi, sonno, lucidità mentale, dignità sociale…
E tu resti lì, come un cretino, a dire “però che bello”.
Complimenti, sei fregato.
E no, non c’è modo elegante per uscirne.