Ogni volta che qualcosa ci colpisce, anche solo per un attimo, nasce una doppia voce.
Una vuole sapere subito, l’altra vuole capire bene. Una sente, l’altra decodifica. Le chiamerò Hawkins e il Sottosopra per integrare la mia passione abbastanza estesa (non gigantesca ed ossessiva, ma abbastanza presente) per Stranger Things.
Stranger Things per me non è solo una serie. È una mappa emotiva. Lo dico con calma, senza voler sembrare profonda a tutti i costi: Stranger Things mi ha colpita non tanto per i mostri, né per la nostalgia anni Ottanta. Mi ha colpita perché racconta in modo simbolico qualcosa che conosco bene: la convivenza tra quello che sento e quello che posso dire (o non dire).
Sembra una storia di bambini speciali e dimensioni parallele, ma per me è molto di più. È una rappresentazione potente di ciò che succede dentro ognuno di noi, ogni volta che ci accade qualcosa che non riusciamo a spiegare, ma che ci muove dentro.
Nella serie (si sbrigasse ad arrivare novembre almeno mi guardo l’ultima) c’è una città che si chiama Hawkins. È normale, pulita e prevedibile: le cose si fanno come si sono sempre fatte. Ci sono scuole, supermercati, ragazzi in bicicletta, famiglie che cercano di tenere tutto sotto controllo. Ma sotto Hawkins c’è il Sottosopra: un mondo nascosto, oscuro, dove le leggi della realtà si spezzano. È un mondo parallelo, invisibile alla maggior parte delle persone. Ma esiste e ogni tanto (spesso, sempre) trapela.
Chi ha una certa sensibilità, come Eleven (la protagonista, l’attuale moglie del figlio di Bon Jovi, quella con cui in un racconto precedente avevo fatto una figura di merda atomica a Milano) riesce a percepirlo. Sente le cose prima che accadano. Avverte un rumore, un campo magnetico, un brivido sulla pelle e spesso non riesce a spiegare perché, ma lo sa.
Ecco, io ho sentito spesso quella cosa. Certo, non nel senso che sono Eleven, non ho poteri e non salvo nessuno, ma conosco quella sensazione: quando qualcosa cambia nell’aria e nessuno se ne accorge. Solo tu. Cioè, io in questo caso.
Quando ricevi un segnale microscopico e ti chiedi: è successo davvero… o sono io che sto creando tutto nella mia testa?
E allora entra in gioco un'altra parte: la mente razionale, l’analisi, il bisogno di prova.
Il nostro “Hawkins interno”, potrei dire. Quella parte che dice: “stai calma, ti stai facendo un film, aspetta a credere.”
Stranger Things ha raccontato esattamente questa dinamica: la superficie (Hawkins) che sembra normale ma è inquieta, il Sottosopra che bussa da sotto la pelle, Eleven che vive a metà tra i due mondi, cercando di spiegare quello che sente a chi non può capirlo, e il Laboratorio, che cerca di studiare tutto, controllare tutto, ma spesso peggiora le cose.
Non è forse quello che facciamo anche noi con i nostri turbamenti? Cerchiamo di contenere, di razionalizzare, di spiegare ogni emozione. Eppure, c’è sempre una parte di noi che ha sentito prima e non possiamo ignorarla, anche se non abbiamo le prove.
Forse è per questo che quella serie mi è piaciuta così tanto: perché mi ha dato un linguaggio per raccontare la mia esperienza emotiva. E prima ho visto un post della Millie su Instagram che mi ha fatto venire l’idea per mixare il racconto con la mia solita psicologia leggera.
Mi ha insegnato (la serie, non la Millie dal post) che non tutto ciò che non si vede è falso, che ci sono mondi dentro di noi profondi, confusi, veri e che se una parte di me è Hawkins, che vuole capire e controllare, l’altra è il Sottosopra: un territorio ancora vivo, pieno di segnali silenziosi, e degno di essere ascoltato.
In psicologia generica Hawkins rappresenta la funzione esecutiva, la razionalità cognitiva. È la corteccia prefrontale: la parte che gestisce l’impulso, frena l’azione, cerca ordine. È quella che ti protegge quando potresti correre verso qualcosa che non esiste. O almeno… non ancora. La voce della superficie, dove tutto deve avere una spiegazione, dove ogni attivazione deve passare sotto il microscopio. Hawkins cerca coerenza, linearità, prove.
Il Sottosopra invece è la voce che vive nelle crepe, dove non c’è spiegazione, ma sensazione, dove basta un frammento per accendere un’intera sequenza. Il Sottosopra sente il movimento sottile dell’aria, è l’eco di qualcosa che potrebbe essere accaduto.
Forse non fuori, ma sicuramente dentro. In psicologia è il sistema limbico, l’intelligenza emotiva. È il centro dell’attivazione, il posto dove il cuore accelera prima che la mente capisca perché. È la casa delle memorie emotive e delle intuizioni corporee. Il Sottosopra non cerca prove, cerca segnali. Sente prima di sapere, mentre Hawkins vuole capire prima di credere.
A volte questi due si ignorano, altre si sfidano, ma quando si incontrano nasce una fessura tra i mondi, un luogo dove non tutto è chiaro, ma qualcosa è vero. Anche se non detto e non confermato come invece conferma questo piccolo botta e risposta.
SOTTOSOPRA: c’è stato un momento piccolissimo, ma si è mosso qualcosa, non un’emozione, non un pensiero, un impulso.
HAWKINS: potresti essertelo inventato. Sai quante volte hai colto segnali che non erano per te? Potresti averlo desiderato e basta.
SOTTOSOPRA: io non voglio sapere se è reciproco, voglio solo sapere se c’è stato qualcosa: una tensione, un passaggio, un contatto microscopico.
HAWKINS: e se invece sei solo tu a cercare prove per calmare un’ansia? Se il voler sapere è solo un modo per rimettere tutto al suo posto?
SOTTOSOPRA: l’ho sentito, ma poi tu arrivi e mi chiedi: “non starai leggendo troppo?” E io smetto di fidarmi di me.
HAWKINS: perché ti conosco e so che puoi coinvolgerti di un frammento, che puoi costruire castelli da un gesto mancato. Io non voglio spegnerti, voglio proteggerti dalla caduta.
SOTTOSOPRA: non sto correndo, non sto cercando prove ovunque. Sto solo tenendo in mano un piccolo dubbio come si tiene un oggetto delicato.
HAWKINS: e questo ti fa onore perché solo chi ha conosciuto il disastro della proiezione può imparare a contenere il proprio sentire.
SOTTOSOPRA: e se poi, un giorno, accade qualcosa? Un gesto, anche piccolo? Una conferma non dichiarata?
HAWKINS: allora la leggerai senza costruirci un mondo sopra, senza farne un finale.
Solo… un piccolo sì nel tuo archivio invisibile.
SOTTOSOPRA: io mica voglio essere scelta. Voglio solo sapere se, per un istante, c’è stato qualcosa.
HAWKINS: e se non lo saprai mai?
SOTTOSOPRA: allora lo tengo dentro come sensazione a cui ho deciso di credere, anche senza prove.
Nel linguaggio psicologico, l’attivazione è un cambiamento neurofisiologico in risposta a uno stimolo: il respiro si modifica, il corpo si orienta, l’attenzione si stringe, qualcosa dentro cambia, anche se fuori tutto tace. Non è una fantasia, è una reazione reale, ma questo non basta a dire che l’altro l’abbia condivisa.
Nella psicologia delle relazioni (uno degli unici esami sensati che secondo me le facoltà di psicologia fanno, gli altri sono tutti troppo tecnici e noiosi), l’urgenza di sapere è spesso legata al bisogno di: interrompere l’attesa, evitare l’auto-inganno e tornare al controllo emotivo con un desiderio di chiarezza che non è egoismo, ma spesso è autoconservazione.
L’ego non chiede di essere amato, a volte chiede solo: “dimmi se ho sentito bene.”
L’intuizione è una lettura rapida, sensibile, che capta dettagli reali.
La proiezione è un filtro: ti fa vedere fuori ciò che hai dentro.
Il confine tra le due non è chiaro (e per me non lo è praticamente mai stato), ma un buon indizio è questo: l’intuizione ascolta, la proiezione anticipa.
L’ego maturo, che è un po’ il mio punto dove sono arrivata adesso nella mia evoluzione personale, non si sminuisce, ma non forza la realtà; sente, ma non pretende. È quell’ego che teme di essere ego… e l’ego che teme di essere ego è già in via di guarigione perché ha imparato a domandare senza manipolare, a stare con la domanda, senza bisogno della risposta.
In ogni comunicazione affettiva, i segnali non dicono tutto, ma possono dire abbastanza. Il problema non è mai il gesto in sé, ma il nostro bisogno che significhi qualcosa. Chi sa aspettare senza illudersi, può leggere i segnali senza bisogno di farli diventare promesse.
Non ogni emozione ha bisogno di conferma, ma ogni emozione vera ha bisogno di essere riconosciuta almeno da chi la sente. Come si sente ormai spesso dire: sentire senza garanzia è un atto di coraggio emotivo, restare nel dubbio, senza perdere dignità, è la forma più profonda di maturità affettiva. Ed in un certo senso questo lo condivido. Dal mio livello di ego attuale riesco a vedere quanto prima mi accanivo per cercare conferme continue alle mie sensazioni e per la mia testa non poteva esistere che mi fossi sbagliata. È vero che le mie sensazioni non sbagliano mai e non hanno mai sbagliato, ma prima agivo di testa, quindi erano sensazioni mentali, non di animo e quelle certo che possono sbagliare.
L’ego non è un nemico, è un costruttore di identità, è quella parte di noi che vuole sapere: chi sono io? Che posto occupo nella mente dell’altro? Sono desiderabile, significativa, visibile? È funzionale quando ci aiuta a capire i nostri limiti, ci spinge a cercare chiarezza nei rapporti, ci difende da relazioni ambigue o svalutanti. È come un sistema immunitario dell’identità: ti protegge dall’invisibilità. E fin qui tutto bene… più o meno, perché non è più funzionale e diventa dannoso (la storia della mia vita insomma) quando ha troppa fame di conferma, interpreta tutto in chiave personale (“se non mi guarda, non valgo”), vive nell’alternanza tossica tra “sono tutto” e “non sono niente”. Qui l’ego non è più guida, ma tiranno, diventa reattivo, ossessivo, affamato. Invece di chiedere “cos’è vero?”, chiede “chi ha vinto?”
Un ego maturo non si annulla, ma sa porsi domande. Il vero segno di un ego che guarisce non è la sicurezza, è la pazienza nel dubbio e per ‘sta pazienza ci ho messo anni a costruirla. Costruirla nel senso di scovarla dentro di me, non auto convincermi di averla che poi non l’avevo.
Va beh, invece, occupiamoci di come funziona il sentire e perché è così difficile credergli.
Il sentire è immediato, viene prima del pensiero, prima della logica, è un’attivazione corporea, emotiva, sottile. È quando: il respiro cambia per una presenza, l’attenzione si focalizza senza sapere perché, qualcosa nel corpo si accende, anche se non è spiegabile. Il sentire è sano quando: non chiede subito conferme, lascia spazio all’osservazione, riconosce ciò che ha mosso dentro, senza pretendere che sia anche fuori. Il sentire non ha bisogno di essere “utile”, ha solo bisogno di essere ascoltato con onestà. Ma ALT (altra dinamica a me super conosciuta) il sentire può diventare illusorio quando: è alimentato da bisogni antichi non riconosciuti, non viene mai filtrato da una voce razionale, viene confuso con la realtà oggettiva falsata. Il sentire non è una diagnosi, è un segnale di movimento interno.
Il sentire accende il fuoco, l’ego chiede: questo fuoco cosa significa?” Se si ascoltano a vicenda, nascono intuizioni, consapevolezza, bellezza. Se litigano, nasce o il cinismo (tutto razionale), o la fantasia compulsiva (tutto emotivo). Il lavoro interiore consiste nel tenere aperto il dialogo tra questi due piani, per questo dico che mi sono fatta un culo quadrato nella mia analisi ed auto-analisi.
Vorrei occuparmi adesso di alcune macro zone della psicologia del Sottosopra.
La zona grigia relazionale o zona del "non ci siamo dette niente, ma intanto lei ci pensa" è la prima da cui parto. Lei (una Lei a caso, un po’ come nella canzone dell’ultimo album di Marracash) lo sa che non è successo niente, che non ci sono messaggi salvati, promesse taciute, dichiarazioni non fatte. Sa benissimo che, ufficialmente, tra loro non è esistito nulla. eppure qualcosa si è attivato, un segnale, un gesto. Non un’interazione chiara, ma nemmeno completamente neutra. All’esterno, la relazione non ha preso forma, ma dentro di lei, qualcosa ha cominciato a vivere lo stesso. Questa è la zona grigia relazionale. Non è un amore, non è un flirt e non è nemmeno una relazione. È un campo indefinito, fatto di micro-attivazioni emotive, mezze frasi e gesti sociali letti come tracce. Una realtà sottile, che esiste anche se non ha un nome. Dal punto di vista psicologico, è uno stato attentivo molto particolare.
Potremmo chiamarlo fenomenologia del quasi-legame: si tratta di tutte quelle dinamiche in cui l’altro non si è esposto, ma ha lasciato qualcosa in sospeso.
E quel qualcosa, anche se piccolo, ha attivato un’intera serie di risposte interne.
Cosa succede nel cervello, quando entriamo in questa zona? Un casino. Succede che il nostro sistema limbico, cioè la parte più antica ed emotiva del cervello, si accende anche senza elementi concreti. Una micro-espressione, un gesto ambiguo, un contatto visivo che dura mezzo secondo in più. Il corpo lo registra, l’emozione si attiva e da quel momento in poi, si genera un campo interno dove l’altra persona è presente, anche se in modo non dichiarato.
Ora, è importante chiarirlo: questa attivazione non è patologica. RIPETIAMO: questa attivazione non è patologica. O meglio, non dovrebbe esserlo (com’era invece per me). Non significa farsi film, né vivere in un’illusione.
Il nostro cervello sociale è programmato per trovare significati nascosti. È fatto per leggere segnali, per cogliere vibrazioni relazionali ed è normale che in certi casi, soprattutto quando siamo più sensibili, o emotivamente disponibili, una semplice interazione lasci dietro di sé una traccia più profonda del previsto.
Il problema nasce quando non sappiamo cosa farcene. Perché la zona grigia non offre risposte, ti lascia lì, in sospensione: non abbastanza coinvolta da poterti esporre,
non abbastanza distante da lasciarla andare. E così, giorno dopo giorno, si innescano piccoli loop interni che nel fantastico mondo dei Social Network sbancano: “ha postato quella canzone per caso, o…?” “Perché non mi ha guardato la storia?” “Se non era niente, perché mi è rimasta addosso?”
In questi casi, entrano in gioco due meccanismi mentali molto comuni alla me di anni fa: il mio bias di conferma: cioè la tendenza a notare solo ciò che conferma quello che vogliamo credere (“ha messo like = prova che mi pensa”) e attribuzione intenzionale: cioè il bisogno di interpretare le azioni altrui come se fossero dirette proprio a noi, anche se mancano dati oggettivi.
Sono meccanismi normali, umani, inevitabili, ma se non ne siamo consapevoli, possono portarci fuori rotta. Ecco perché serve una voce interiore lucida. Non fredda, lucida. Quella della me di oggi insomma. Una parte di noi che dica: “sì, hai sentito qualcosa, ma adesso osserva, non immaginare troppo, non negare tutto.” Perché il rischio, in questi casi, è sempre doppio: o credere troppo a ciò che vogliamo vedere, o negare del tutto ciò che in realtà ci ha toccate.
Ovviamente, nel mondo dei Social, la zona grigia si trasforma in un teatro intero, perché tutto è pubblico, ma niente è chiaro. I gesti hanno il peso di dichiarazioni, ma restano reversibili. Quasi sempre un like non è solo un like, una storia non è solo una storia, una canzone può essere solo un brano casuale… oppure una dedica segreta con il volume abbassato. E così la mente costruisce anche senza volere, anche quando cerca solo un po’ di coerenza.
Chi vive nella zona grigia, comunque, non è folle, né debole. È solo qualcuno che ha sentito qualcosa prima che potesse essere confermato. Qualcuno che vive tra ciò che ha percepito e ciò che non può chiedere e che, nel frattempo, prova a restare lucida, senza smettere di essere onesta con se stessa.
Perché alla fine è questo che conta: non negare che qualcosa si è mosso, anche se non sapremo mai come chiamarlo. E su questo non ho abbastanza definizioni, per ora, per continuare quindi posso spiegare cosa succede davvero nella nostra mente quando ci attiviamo emotivamente, anche se non c'è una relazione concreta.
Quando qualcosa o qualcuno ci tocca, anche solo con un gesto vago, una presenza breve, uno scambio sottile, non sempre sappiamo come gestirlo. Non sappiamo se è successo davvero o se l’abbiamo solo voluto vedere.
Il nostro corpo lo ha sentito, la nostra mente cerca di interpretarlo e intanto nasce quel cortocircuito classico: sentire tanto, ma non sapere cosa fare di ciò che si sente.
La psicologia ci dovrebbe aiutare a fare ordine, non per togliere magia, ma per restituire dignità a quelle esperienze emotive che il linguaggio comune tende a sminuire.
Tipo cose come: “ti stai facendo i film”, “non è successo niente”, “stai esagerando”.
No, non stai esagerando. Stai solo rispondendo con tutta la tua struttura interiore a un segnale non elaborato, quelle dinamiche psicologiche più comuni che si attivano in questi casi, non nelle relazioni dichiarate, ma nelle non-relazioni, nei quasi-contatti, nei “mi ha seguito ma non mi ha scritto”, nei “non mi guarda ma poi reagisce alle stories”.
E lo vorrei fare aggiungendo due episodi al primo della meravigliosa zona grigia: il modo in cui il cervello interpreta quei segnali e come imparare a distinguere intuizione da proiezione, realtà da bisogno.
Nell’episodio di poco fa ho scritto della zona grigia relazionale, cioè quel campo sottile dove nasce un effetto psicologico anche se non c’è stata alcuna conferma o dichiarazione esterna.
Nel secondo episodio, che state per leggere, entriamo più a fondo nei meccanismi mentali che ci fanno leggere il comportamento degli altri in modo non sempre oggettivo. Qui rientrano in gioco i bias cognitivi per tutti, non solo i miei.
I bias cognitivi sono delle scorciatoie mentali. Programmi automatici del cervello nati per farci risparmiare energia, ma spesso ci fanno saltare a conclusioni affrettate.
Sono il motivo per cui pensiamo: “se ha messo like allora ci sta”, “se non mi ha risposto, allora non gli interesso”, “se ha visto la storia ma non ha detto niente, allora mi sta facendo un gioco.” E allora sì, a quel punto un gesto ambiguo non è più ambiguo: diventa un intero paragrafo mentale. E il Sottosopra si popola di interpretazioni che a volte ci guidano… e a volte ci ingannano.
Il prossimo episodio subentra proprio ora, quel momento in cui la nostra mente comincia a raccontarci qualcosa, e noi non sappiamo più se stiamo leggendo bene il mondo o se stiamo solo difendendo il nostro bisogno. Quando il nostro cervello ci racconta quello che vogliamo sentire o: “ha guardato la storia e poi è sparita = mi desidera ma si sta trattenendo.”
Lei (è tornata Lei) non lo fa apposta, davvero. Non si mette lì a costruire castelli, è che qualcosa dentro ha già iniziato a lavorare. Ha ricevuto un gesto minimo e ora tutto il suo sistema percettivo si è messo al lavoro. Tipo un algoritmo interno, silenzioso, costante, solo che non cerca contenuti, cerca conferme.
Il segnale di partenza può essere qualsiasi cosa: un like su una foto vecchia, un messaggio visualizzato e lasciato lì, una reazione a una storia che non apre una conversazione. E allora comincia il processo paranoico.
“Perché ha messo like a quella foto vecchissima?” Mi sta mandando un segnale? Stava stalkerando? O è solo distratta?
“Ha postato proprio dopo che ho messo la mia storia… è una risposta?” Lo sta facendo per farmi vedere qualcosa?
“Perché segue tutte le mie amiche ma non me?” Sta cercando di ignorarmi? È un gioco di potere?
“Ha visto la storia e poi ha pubblicato quella frase: è una frecciatina?” Sta comunicando qualcosa senza volerlo dire direttamente?
“Se non mi interessa, perché mi guardo tutte le storie anche io? E se fa lo stesso con me?” Siamo entrambe in silenzio, ma in ascolto?
“Ha messo like solo a una foto: quella dove si vede meno il mio corpo. Perché proprio quella?” Sta evitando di esporsi troppo? Mi legge troppo bene?
“Aveva reagito alla storia… poi ha tolto la reazione. L’ho solo sognato?” È stato un errore? O si è pentita?
“Mi ha taggata in una cosa generica, ma l’ha mandata solo a me…” Sta cercando contatto ma senza prendersi il rischio?
“Pubblica solo quando sa che io sono online. Coincidenze?” Mi sta monitorando anche lei?
“Ha risposto al commento di tutti, tranne al mio. Perché?” Mi sta punendo? Gioca a farsi desiderare?
“Non ha mai risposto ai DM, ma ha messo like appena ho tolto la visualizzazione…” Mi ha notata proprio quando mi stavo ritirando?
“Ha smesso di guardare le mie storie da un giorno all’altro. Cos’è successo?” Si è disattivata? È partita una strategia?
“Perché ha messo la mia stessa canzone nella storia due giorni dopo?” Mi sta parlando, o è solo un caso inquietante?
“È sparita dai social ma mi guarda solo le storie su WhatsApp…” Cosa vuol dire questo codice? Perché mi tiene dentro solo lì?
“Ha reagito con una risata, ma non ha risposto. È un modo per dire ‘ti vedo’ senza dire ‘ti cerco’?” Gioca, o non gliene frega niente?
“Ha guardato le stories tutte in ritardo, tipo a mezzanotte. Come se lo facesse di nascosto.” Mi sta ancora pensando? O non vuole che lo noti?
“Mi guarda, mi segue, ma non fa mai il primo passo. Sta aspettando me?” Siamo entrambe ferme nel dubbio?
“Ha reagito a una cosa davvero banale. È un modo per testare se sono ancora lì?”
Sta cercando il contatto ma con le mani dietro la schiena?
“Pubblica come se non le fregasse nulla, ma poi mi guarda sempre per prima.” È indifferenza o controllo sotto coperta?
Non è follia, anche se può sembrare. È semplicemente così che funziona il cervello quando è attivato emotivamente e io dai tempi dei trilli su MSN ne ero ossessionata. Totale. Cioè vivevo per queste cose e non so dire se il bello o il brutto era che 9 su 10 ricevevo conferme a tutte le mie domande dubbiose e quindi avevo proprio milioni di moventi per continuare su quella strada ed il mio ego non aveva fine. Riconoscere di avere un ego alto, ridimensionarlo e unirlo alla mia parte profonda… un dramma. Ma ci sono.
Dal punto di vista psicologico, quello che sta accadendo è davvero tutto un po’ il solito bias di conferma. In pratica: se una parte di lei ha già deciso che quell’altra persona ha lasciato un segnale, tutti gli altri gesti inizieranno a essere letti in funzione di quella convinzione.
Se visualizza - sta pensando a me.
Se non risponde - sta lottando con qualcosa.
Se guarda ma non reagisce - mi desidera, ma non può esporsi. Infatti uniamoci pure l’altro meccanismo che accennavo prima, l’attribuzione intenzionale. Cioè l’idea, spesso inconsapevole, che ogni gesto dell’altro abbia un’intenzione precisa, rivolta a noi.
Non che l’altro abbia solo postato una foto, ma che l’abbia fatto per essere visto.
Da noi. A quell’ora. Con quella canzone.
“Ripigliati” era la parola che più mi dedicavo fino almeno a 5-6 anni fa.
Certo, chi ha una buona intelligenza emotiva (ed io ho sempre sentito di averla) è spesso più soggetto a questi slittamenti, perché è capace di leggere tra le righe, ma a volte legge anche dove non c’è scritto nulla.
Cosa succede quando questi due bias si sommano? Succede che il Sottosopra diventa rumoroso e Eleven (Undici per dirlo in italiano) non capisce più un cazzo. Non ci sono più solo segnali, ma narrazioni interne che si auto-alimentano. E lei non può più distinguere se ciò che crede… lo ha sentito, lo ha intuito, o lo ha solo desiderato.
E intanto passa il tempo e più il tempo passa, più la narrazione si struttura, come se dentro di lei ci fosse un intero archivio di segnali raccolti, codificati, trasformati in senso. Ma non è tutto da buttare, questo processo, anche se può sembrare drammatico.
Non serve dire: “ti sei immaginata tutto”. Perché no, qualcosa è accaduto. È accaduto il bisogno, è accaduta l’attesa di una conferma, è accaduto il movimento interno verso l’altro, che ha fatto partire il meccanismo. Il punto è: lo riconosci? Sai distinguere cosa viene da fuori… e cosa stai creando dentro per proteggerti, per sentirti vista, per dare ordine al caos?
Il cervello non è una macchina della verità, ma una macchina del significato.
E quando siamo vulnerabili, perché ci sentiamo attratte, perché siamo in attesa, perché qualcosa si è aperto, il cervello non cerca la verità. Cerca coerenza.
“Dammi una storia che abbia senso, anche se è solo una storia.”
A questo servono gli episodi del Sottosopra. Non a smontare le emozioni, ma a creare un piccolo spazio mentale dove possiamo dirci, con gentilezza: “sì, qualcosa l’ho sentito. E sì, potrei anche averlo raccontato a modo mio. E va bene così, ma adesso osservo, senza farmi incastrare dalla mia stessa versione dei fatti.”
Perché non tutto ciò che sembra intenzionale lo è e non tutto ciò che ci attiva ha un seguito, ma intanto, ci ha attivate davvero. E questo, psicologicamente, è già tutto ciò che serve per cominciare a guardare con più lucidità. Con più lucidità. Dire con lucidità è un po’ too much.
Il dubbio, in generale, non è uguale per tutti. O meglio, perché con alcune persone riesco a lasciar correre, e con altre mi sveglio nel cuore della notte?
Non è che ci si pensa sempre, non è che ogni like diventa una ferita. Con certe persone, se le cose non si chiariscono, pazienza. Il messaggio non risposto? Si scorda.
Il silenzio? Si archivia. C’è una leggerezza naturale nel lasciar andare, ma con altre no.
Con altre, il dubbio entra sotto pelle. Diventa fisico, si chiude la gola, gira la testa quando si pensa a quella scena. Si sente il cuore cambiare ritmo se scorre le storie e vede che ha guardato tutto, ancora una volta, senza dire nulla.
La risposta, a livello psicologico, si chiama finestra di tolleranza emotiva.
È un concetto fondamentale a cui io per un po’ non ho creduto perché la buttavo solo su una questione di estetica (più era bella la ragazza in questione più mi fissavo e partivo in quarta con le congetture). Indica lo spazio mentale in cui possiamo restare presenti senza andare nel panico, né dissociarci. È quella zona interiore in cui possiamo sentire le emozioni senza farci travolgere, ma nemmeno anestetizzarci. Quando siamo dentro la finestra, possiamo: osservare quello che proviamo, restare in contatto col presente, non saltare a conclusioni impulsive. Quando usciamo dalla finestra (verso l’alto o verso il basso), invece: entriamo in iperattivazione (ansia, pensieri ossessivi, ipervigilanza) o in ipoattivazione (apatia, chiusura, evitamento emotivo). Con certe situazioni, la finestra resta ampia, il dubbio è tollerabile, sappiamo aspettare e lasciare spazio. Con altre, invece, il nostro sistema nervoso interpreta l’ambiguità come una minaccia. Non siamo più in grado di stare nel non sapere, scatta il bisogno urgente di chiarire, risolvere, controllare e se non ci riusciamo, ci sentiamo smarrite come se la mente non avesse più ossigeno.
E allora la domanda non è solo: “perché lei mi ha attivata? Perché era bella?”
Ma: “perché questa situazione mi manda fuori dalla finestra?” E no, la bellezza non c’entra un cazzo quando andiamo nel profondo.
Le risposte possono essere tante, ma in linea di massima girano in torno al nostro splendido passato: perché ha riattivato una ferita antica (non vista, non scelta, non confermata); perché ha toccato un punto delicato della nostra identità (desiderabilità, valore, unicità); perché ci ha dato un piccolo segnale… e poi ci ha lasciate da sole nel vuoto. E lì, il vuoto non è neutro, diventa assenza, frustrazione e fame. Ci sembra quasi di aver perso qualcosa che non abbiamo mai avuto davvero.
È importante però capire questo: non è questione di debolezza. Uscire dalla finestra di tolleranza non significa essere instabili. Significa avere un sistema nervoso che si è sentito in allarme e spesso l’allarme è antico. Viene da prima.
A volte, nella persona che ci attiva, c’è qualcosa di simile a qualcun altro: una risonanza, un tipo di energia, un tono nello sguardo. Il corpo lo riconosce e se ha già vissuto qualcosa di simile in passato, una promessa non mantenuta, un’illusione bruscamente interrotta, allora lo vive non come incertezza, ma come pericolo. E quando percepiamo pericolo, il sistema entra in difesa: controlla, analizza, si agita, non perché siamo sbagliate, ma perché vogliamo sentirci al sicuro.
Il Sottosopra diventa insostenibile solo quando ci costringe a restarci senza strumenti, ma se impariamo a riconoscere quando il nostro corpo sta uscendo dalla finestra,
possiamo restare dentro anche nei momenti più nebulosi, non per ignorare ciò che abbiamo sentito, ma per non essere inghiottite da ciò che non possiamo controllare.
Ci sono storie che non succedono mai. Non iniziano, non accennano, non si dichiarano. Sono quelle in cui non c’è un primo messaggio, né una risposta. Quelle in cui le mani non si sfiorano e la voce dell’altra resta solo immaginata, ma il corpo, intanto, si è mosso e la mente ha aperto un varco. Un pensiero ha fatto spazio a un’altra presenza, una figura è rimasta lì, tra i margini del possibile, senza avanzare né svanire. Si chiamano fantasie affettive non agite, ovvero legami che esistono solo nella mente, ma con un’intensità così definita che non si possono trattare come semplici illusioni. Non sono inganni, né sogni a vuoto. Sono strutture emotive, intere, hanno una geografia, un tempo, un linguaggio privato.
Nel mondo esterno non si è mai dato nulla, ma nel mondo interno, tutto ha preso forma. E qui il Sottosopra batte Hawkins 5 a 0 come il PSG ha fatto con l’Inter in Champions…
Succede così: una persona entra nella tua traiettoria, anche solo di sfuggita. Eppure ha qualcosa, un’impercettibile vibrazione che ti fa fermare. Da quel momento, inizia il lavoro invisibile. Le immagini si costruiscono da sole, le frasi non dette si completano, i gesti che non hai mai visto diventano familiari, il modo in cui potrebbe toccarti, guardarti, dirti di no. Anche quello esiste, nella tua testa. E non serve che accada davvero, basta che potrebbe accadere. La possibilità, già da sola, ha un potere enorme.
La mente la prende, la coltiva e spesso, lo fa non per creare un’illusione, ma per proteggerti, o per dare un luogo a qualcosa che non ha avuto modo di manifestarsi altrove.
In psicologia, queste fantasie non sono “perdere tempo”, sono considerate forme di elaborazione interna. A volte sono desideri, altre volte sono tentativi. Spesso sono esercizi di contatto emotivo, dove la mente ripara, rielabora, o semplicemente esplora. Perché certe volte, nel fuori, non è possibile, per mille motivi: perché non c’è spazio, perché l’altra persona non c’è davvero, perché non ti puoi esporre o perché anche solo il gesto di avvicinarti ti metterebbe troppo a nudo. E allora la fantasia tiene il posto come un teatro intimo dove puoi entrare quando vuoi, anche se solo per pochi secondi.
Un luogo dove sei libera di avvicinarti, ma senza conseguenze, dove puoi permetterti di sentire tutto, senza doverlo spiegare a nessuno.
E poi c’è una verità che spesso nessuno dice ad alta voce: che ci sono persone che non sono mai state con te… ma sono diventate importanti lo stesso. Perché ti hanno dato una sensazione, perché ti hanno riportata a una parte di te che era rimasta muta, perché anche senza toccarti, hanno smosso qualcosa. E forse sì, è tutto accaduto solo nella tua testa, ma era una testa vera. Era un cuore vero. Era una scena vera, anche se immaginata. E allora no, non serve scrivere, dire, cercare. Ci sono legami che esistono proprio perché non sono mai stati reali e per questo sono rimasti intatti.
Nel Sottosopra, anche i non-legami hanno una loro verità. Una verità fatta di possibilità sospese, silenzi pieni, immagini che non hanno bisogno di essere vissute per lasciare una traccia. E se è lì che restano, se è lì che continuano a respirare,
allora è lì che hanno scelto di vivere.
Sembrerò un po’ brutale, ma comunque sempre onesta: non è sempre insieme che succede. A volte la scintilla è asincrona, tu la senti in tempo reale, lei no. Tu hai percepito il cambio nell’aria, il modo in cui il suo sguardo è scivolato via un attimo più lento, la pausa nella voce quando ha detto “ci vediamo” e magari lei l’ha detto per dire, magari ha già dimenticato, ma tu, no, tu sei rimasta lì, ferma dentro un tempo che l’altra persona non ha ancora raggiunto.
Bella roba, lo so. Però succede. A volte sentiamo prima, prima che l’altra si accorga, prima che sia pronta, prima che qualcosa venga messo a fuoco da entrambe, ma succede anche che l’altra non lo sentirà mai. È qui che nasce il cortocircuito: quando il cuore accelera ma l’ambiente resta immobile. Quando tu sei già in ascolto, e intorno non arriva risposta. Non perché sei pazza, ma perché sei in anticipo.
La psicologia la chiama asincronia relazionale. È quando due persone vivono tempi emotivi diversi rispetto allo stesso stimolo. Una è già attivata, in contatto con ciò che prova. L’altra è distratta, altrove, ancora dentro il proprio rumore di fondo. Il rischio, per chi sente prima, è uno: forzare, cercare segnali, fare una domanda in più, mettere il cuore sul tavolo prima ancora che ci sia una stanza. Ma non sempre è fame d’amore, spesso è solo bisogno di sapere che non si è sentito da sole.
Ecco, a questo punto inizia il lavoro più delicato: restare in contatto con ciò che hai sentito, senza pretendere che arrivi una conferma. Sapere che può darsi che tu abbia percepito qualcosa che è ancora in silenzio nell’altra persona o che è stato solo un tuo movimento, ma un movimento vero, reale.
L’intuizione non sbaglia. Non perché ha sempre ragione sugli altri, sempre la verità su di noi.
Ci sono incontri dove le tempistiche non combaciano: tu sei già nella pagina quattro, l’altra non ha ancora aperto il libro e forse non lo aprirà mai o forse lo farà tardi e ti troverà già in un’altra storia. La reciprocità, quella vera, non è fatta solo di sentire la stessa cosa. È fatta di sentirla nello stesso momento. E quando questo non accade, si resta in un’intercapedine, come se l’aria fosse piena di qualcosa, ma nessuno lo nomina. Tu cerchi l’eco… e non arriva, ma il fatto che tu abbia parlato, anche solo dentro, resta. E allora ti fermi, non per paura, ma per rispetto del tempo che non puoi controllare, non per disinteresse, ma perché sai che forzare non genera verità, genera solo risposte confuse. Aspetti e se l’altra arriva, bene, ma se non arriva, non significa che tu ti sia sbagliata. Significa solo che avete danzato in tempi diversi e non tutte le danze possono cominciare così. Nel Sottosopra succede spesso. Sentire prima e sentire da sole. Aspettare un risveglio che non sempre arriva, ma anche questa è una forma di verità.
Infine nomino la mia dinamica preferita (perché è la mia ancora ad oggi in un certo senso), quella del controllo emotivo, ovvero: so cosa sei per me e mi proteggo da quello che potresti diventare
Lei non vuole sapere tutto per ossessione. Non lo fa per manipolare, né per strategia.
Lo fa perché non sapere la lascia esposta. Esposta al vuoto, esposta al possibile, esposta a una parte di sé che non controlla, e che quindi non le garantisce sicurezza. Il bisogno di controllo, in questi casi, non è potere. È paura, autodifesa, è una voce dentro che sussurra: “se riesco a capire cosa c’è, allora posso decidere come sentirmi.” Ecco la verità nuda: il controllo emotivo non è mai sul sentimento, è sempre sul significato.
Se mi dici che ti ho colpita, io mi calmo.
Se mi confermi che non c’è nulla, mi chiudo.
Se resti vaga, io mi moltiplico.
Perché senza definizione, la mente lavora da sola: cerca formule, cerca nessi, costruisce. Non è bisogno di verità, è bisogno di pace.
In psicologia, il controllo ha tante facce ed io le ho un po’ tutte insomma. C’è quello rigido, nevrotico, da protocollo eccetera eccetera eccetera, ma c’è anche quello più sottile, emotivamente intelligente, che si manifesta come bisogno di mappa interna.
“Se so dove siamo, non mi perdo.”
Ed è proprio in questo che il controllo si traveste: da lucidità, chiarezza e ricerca della verità. Quando in realtà è solo un modo raffinato per dire: “ho paura che qualcosa di me venga stravolto dopo tutto lo sbattimento per rimetterlo in ordine.”
Il bisogno di sapere non è ego puro. È una forma evoluta di difesa, una modalità con cui proviamo a riprendere le redini di ciò che ci coinvolge.
E coinvolge, sì. Perché ci ha fatto tremare, ci ha lasciate in sospensione per ore, giorni, senza sapere se eravamo viste, desiderate, immaginate o l’esito di un esame, di un progetto. Allora il controllo diventa ancora più importante: è un modo per non essere in balia.
Ma c’è una cosa che questo meccanismo non sa fare: lasciare spazio. Spazio al tempo, al dubbio, all’altro, che forse sente diversamente, o non sente affatto. Il controllo, quando si chiude troppo, trasforma la mente in una griglia e in quella griglia, ogni gesto viene codificato, ogni silenzio diventa un messaggio ed ogni ritardo, una dichiarazione. Non è più relazione, è lettura. Eppure lo capiamo, quando siamo lì.
Lo sentiamo che stiamo cercando prove, lo sappiamo che non vogliamo solo sapere,
vogliamo anticipare il colpo.
Dimmi cosa sei, così decido se farti entrare.
Dimmi chi sei per me, così mi preparo all’eventuale assenza.
Alla fine, tutte le domande che ci siamo fatte nel Sottosopra (mi ha vista? Ha sentito anche lei? Era tutto nella mia testa?) portano qui: al desiderio di controllo come forma di sopravvivenza emotiva. Perché se c’è una cosa che fa più male di non essere ricambiate, è non sapere se ci siamo inventate tutto.
Ma forse, la chiusura vera è proprio questa: che il controllo non serve a proteggere dal dolore, serve solo a dargli una forma, a incastrarlo in un significato e a renderlo misurabile per non sentire troppo e per non crollare ancora.
E allora va bene così. Anche se non ha funzionato, anche se il dubbio è rimasto, abbiamo cercato di non perderci. Controllare, in fondo, era solo un modo per restare presenti mentre qualcosa in noi si muoveva.
E forse il Sottosopra serve anche a questo: a ricordarci che il bisogno di sapere nasce quando sentiamo davvero. E che, anche se non sapremo mai tutto, quello che abbiamo sentito… è successo. E vorrei tanto capire cosa fa Max. Max di Stranger Things. Come fa a restare lì, fluttuante, con la mente divisa a metà tra ciò che sente e ciò che le succede intorno. Vorrei sapere cosa vede davvero, mentre gli altri la chiamano, le parlano, le urlano che deve tornare su.
Vorrei capire se in quel vuoto ci si abitua, se, dopo un po’, impari a viverci. Se anche lei, come noi, ogni tanto si domanda: “lo sto ancora sentendo, o me lo sto solo ricordando?”
Perché il Sottosopra, quello vero, non è pieno di cose non dette, di emozioni che non si chiudono, di contatti che sembravano elettrici e poi si sono spenti senza preavviso. E allora sì, forse Max non è poi così lontana, forse è solo la parte di noi che resta in apnea, aspettando che qualcosa, o qualcuno, ci riporti a galla, oppure ci lasci andare del tutto.
Ma intanto, ci resta lì, come una storia che non finisce, ma smette solo di parlare.
Questo devo dire che mi è piaciuto davvero tanto Muso!! Hai collegato benissimo Stranger Things con il tuo pensiero, la psicologia e le emozioni umane🙏