Ho incontrato le parole di Gabriella Tupini per caso, o almeno così sembrava. Ma subito mi sono resa conto che non si trattava affatto di un incontro qualunque. Le sue parole non si sono fermate al livello della razionalità, come fanno tanti discorsi che ascoltiamo e dimentichiamo in fretta. No. Le sue parole mi hanno attraversata. Hanno scavalcato le difese della mente e sono scese più giù, in zone dimenticate o appena accennate della mia anima. Zone dove qualcosa ha cominciato a vibrare, a risvegliarsi. Non è stato tanto un capire, quanto un sentire profondo. Un riconoscimento immediato. Come se quello che diceva non lo stessi ascoltando per la prima volta, ma lo stessi ricordando.
Da questa esperienza così intensa è nato il desiderio di raccogliere, riordinare, e portare alla luce i contenuti dei suoi video. In questo spazio, con lentezza e rispetto, riassumerò i suoi primi interventi e in questa seconda raccolta parlerò dal suo video numero 4 al video numero 7 cercando di restituire il nucleo vivo del suo messaggio, senza snaturarlo.
Ma non mi fermerò lì. Accanto ai riassunti, intreccerò riflessioni personali, esperienze, intuizioni e autoanalisi. Perché le parole di Gabriella non parlano solo in astratto: chiedono di essere incarnate. Voglio provare a farle passare attraverso di me, metterle in dialogo con la mia storia, con le mie ferite, i miei condizionamenti, la mia ricerca. Non come un esempio da seguire, ma come una traccia da percorrere insieme, se vorrete.
Questo spazio sarà quindi un doppio viaggio: dentro la voce di Gabriella e dentro la mia. Dentro un sapere che è insieme arcaico e attualissimo, e dentro il tentativo di viverlo oggi, nella concretezza del quotidiano. Perché sento che, se davvero vogliamo cambiare, dobbiamo partire da lì: da ciò che ci attraversa, non da ciò che semplicemente ci convince.
IL VAMPIRO (4)
Il simbolo del vampiro esercita da sempre un forte fascino sull’immaginazione umana. Molti ne sono attratti perché rappresenta un desiderio profondo: l’immortalità. Il vampiro non muore, e si nutre di sangue, che nell’inconscio collettivo è simbolo di energia vitale, di emozione, di vita stessa. Ma il vampiro non è solo una figura esterna: rappresenta qualcosa che vive dentro di noi. È la nostra mente condizionata, quella che ci toglie energia continuamente, che ci giudica, ci corregge, ci domina. È una voce che parla senza sosta nella nostra testa, che ci vampirizza.
Accettare il vampiro significa accettare la promessa di essere immortali, ma a un prezzo: diventare anche noi vampiri, nutrendoci delle energie altrui e delle nostre. È la mente condizionata che ci inganna, ci fa credere che ci protegge, che ci salva, ma in realtà consuma le nostre risorse interiori. È una presenza costante che suscita problemi e poi tenta di risolverli, senza riuscirci. È un genitore interno, un’autorità che ci comanda o ci punisce, e che ci tiene ancorati a una condizione infantile. In termini freudiani, è il Super-Io: la voce che ci giudica, che ci dice cosa dobbiamo essere, come dobbiamo comportarci, senza mai accettarci per ciò che siamo.
Il vampiro è figlio, mai adulto. Vive sotto la protezione del genitore e da lì trae la sua illusoria immortalità. È l’eco del bambino che crede che, finché ha il genitore accanto, nulla di male può succedere. Ma quando cresciamo, ci rendiamo conto che nessuno può proteggerci da tutto, nemmeno i genitori. Eppure, dentro, quella parte infantile resta.
Il vampiro è reale nella misura in cui è la mente che ci prosciuga. Ci impedisce di essere presenti, ci tiene nel rimpianto del passato o nella paura del futuro. Eppure ci promette che, se continuiamo ad ascoltarlo, saremo al sicuro. Ci illude di avere controllo, ma ci ruba il presente. Ci tiene ancorati a un’esistenza immaginaria, non vissuta. E quando cominciamo a invecchiare, a confrontarci con la morte, la mente corre a fare bilanci, a contare ciò che è stato. Ma ciò che conta non è ciò che abbiamo fatto, è ciò che siamo. Sempre. Anche ora.
Il vampiro affascina perché incarna un desiderio profondo dell’essere umano: l’immortalità. È una figura che promette di non morire mai, ma al prezzo di nutrirsi delle energie altrui — e, più profondamente, delle proprie. Questa figura mitica rappresenta in realtà la mente condizionata: quella parte interna che ci prosciuga, che ci giudica, che ci fa sentire inadeguati. È una voce continua, logorante, che ci promette sicurezza, ma ci priva di vitalità.
A differenza della depressione, che si diffonde per contagio emotivo, il vampirismo è un atto attivo, predatorio. Alcune persone, senza nemmeno volerlo consapevolmente, vampirizzano gli altri. Lo capiamo solo dopo, quando usciamo dal loro campo energetico e ci sentiamo svuotati. Come diceva il mago Kremers nell’Ottocento, molte persone vampirizzano senza saperlo, e bisogna imparare a riconoscerle. I logorroici, ad esempio, consumano la nostra attenzione, e l’attenzione è energia: se si esaurisce, ci sentiamo stanchi, svuotati.
La mente vampirica è la mente artefatta, difensiva, quella che crede di proteggerci ma in realtà ci intrappola. Ci porta verso figure autoritarie, genitoriali, a cui affidiamo fiducia e controllo, ma spesso riceviamo delusioni e ferite. Il vampiro, come archetipo, è immortale perché resta figlio: protetto da un “genitore” interno, non cresce mai, e in questo trova la sua forza apparente. Ma è una forza sterile, che rifiuta i cicli della natura, che nega la trasformazione.
La vera vita, quella che si scopre quando la mente condizionata cade, è tutt’altra cosa. È intensa, viva, ma non eterna. L’idea stessa di vivere per sempre, una volta che si conosce la profondità autentica dell’esistenza, diventa insopportabile. Abbiamo bisogno di cicli, di passaggi, di trasformazione. La mente vampirica ci illude, ci fa temere la morte e ci ruba il presente. Smascherarla è il primo passo verso la libertà.
Riconoscere questa voce interiore e vedere quanto parla — quanto giudica, quanto distrae — è essenziale. Quando finalmente tace, quando cade davvero, ci si accorge che non si è più in due. “Quando di due farete uno,” dice il Vangelo di Tommaso, “direte alla montagna di gettarsi nel mare.” Il senso non è letterale, ma profondo: l’unione tra anima e mente libera una potenza nuova, interiore, creativa.
Questa unificazione è stata rappresentata da molti simboli: il Sacro Vaso dei Misteri, il Letto Nuziale tra mente e anima, l’unicorno — animale libero e fiero, che si lascia avvicinare solo dalla vergine, cioè dall’anima libera da condizionamenti. Quando la mente si unisce a un’anima purificata, allora nasce qualcosa di nuovo: non più mente, non più istinto cieco, ma un essere intero.
Il vampiro è l’opposto di tutto questo. È la mente che si isola, che domina, che consuma e vuole essere superiore a tutto e a tutti. È la mente che rifiuta i cicli, che si illude di poter restare fissa, eterna, separata. È ciò che ci impedisce di sentire davvero il mondo. Ecco perché tanti miti parlano della ricerca di un’unione perduta: come il Graal, simbolo non di sangue fisico ma di pienezza spirituale. Come dice Re Artù nel film Excalibur: “Non sapevo quanto la mia anima fosse vuota finché non è stata riempita.”
E si riempie solo quando la mente si ritira. Quando i condizionamenti cadono. Quando finalmente torniamo interi.
La ricerca del Graal è una metafora della ricerca interiore. I cavalieri partono perché devono, perché sentono che quella ricerca è necessaria, inevitabile. Parzival, nella sua versione più simbolica, arriva alla meta spogliato: precipita nelle acque e perde l’armatura. Resta nudo. E la nudità non è fragilità, ma verità. Essere nudi significa non avere più le corazze della mente, non essere più protetti da maschere, ruoli o strategie. L’armatura è la mente stessa, quella mente che si difende, combatte, si giustifica. Spogliarsi è tornare all’anima.
Il vampiro, in questa visione, è la mente con cui ci identifichiamo. Spesso crediamo di essere quella voce che parla nella testa, che giudica, commenta, prevede, controlla. Ma se ci fermiamo a osservarla, ci rendiamo conto che quella voce non siamo noi. È una presenza interna, ma distinta. E lo capiamo perché pensa cose che non sentiamo davvero, perché dice parole che non ci rappresentano. Iniziare a guardare la mente, a osservarla come qualcosa di separato, è il primo passo per smettere di identificarci con essa.
Noi siamo anche altro. Siamo ciò che guarda la mente. Siamo la presenza silenziosa che può notare quando la mente si agita, si perde, ci trascina lontano. E nel momento in cui la osserviamo, già cominciamo a liberarci. Possiamo persino imparare a bloccarla, quando parte per la tangente: con il corpo, con le mani, con l’azione concreta. Ogni volta che torniamo al presente, e riconosciamo che la mente è solo una parte di noi, non la totalità, siamo un passo più vicini all’essere interi.
Quindi sì: il vampiro è la mente. E osservarla, vederla, è il modo per uscirne vivi. Per quanto mi riguarda, non ho mai sentito di aver paura della morte perché con la mente mi ripetevo che tanto tutto muore, ma nella realtà non mi fermavo mai. Siccome stavo male, avevo bisogno di riempirmi e mi riempivo per non sentire che stavo male. Soldi, viaggi, soldi, concerti, soldi, uscite, soldi. Era una ruota del criceto che girava all’impazzata e mi portava lontano da me, guadagnavo e spendevo convinta che mi andasse di farlo fino a che guadagnavo e non spendevo, ma risparmiavo, quando ero in preda a delle paure, non mie, che mi erano state inculcate nella testa stile: ‘non si sa mai.’ Questo ‘non si sa mai’, mio padre me lo avrà ripetuto dal mio primo giorno di vita, forse è stata proprio la mia prima parola invece che MAMMA o PAPÀ. ‘Non si sa mai’, come se da un giorno all’altro dovesse crollare il mondo, quindi, cosa succedeva? Siccome stavo male e non volevo vederlo, per sfuggire alla realtà mi servivano i soldi per viaggiare, uscire alla sera e andare ai concerti (le tre cose che preferivo), ma siccome avevo lo schema del ‘non si sa mai’ che spesso bussava, mi sentivo in colpa quando lo facevo e mi ritrovavo in un limbo orribile di confusione sballottata tra il: si vive una volta sola ed il devo risparmiare. Ma era sempre la mia mente condizionata artefice di questa cazzata e l’ho capito che era tutto una bufala quando? Quando ho visto quanto non mi stessi ascoltando veramente. Agivo di impulso spinta o da quello che mi avevano detto o da una mia paura. Non poteva esistere il fermarmi e l’ascoltarmi. Dovevo fare fare e fare, senza capire nel profondo che era inutile continuare a fare fare e fare, tanto sarei morta anche io. Bene, quando ho trovato il coraggio di fermarmi mi si è svoltata la vita e a darmi l’input per fare quel salto di qualità in più dentro di me è sempre stata lei: Gabriella Tupini.
IL LIBERO ARBITRIO (5)
Nel quinto video di Gabriella Tupini, la Dottoressa parla di libero arbitrio, uno degli schemi mentali più radicati da mettere in discussione.
Ci è stato insegnato che l’essere umano possiede il libero arbitrio, che Dio stesso ce l’avrebbe donato. Ma questa è una costruzione mentale. In realtà, l’essere umano non è libero nelle sue scelte, perché è condizionato in ogni aspetto: dal corpo, dalle emozioni, e soprattutto dalla mente.
Il corpo ha esigenze ineludibili: la fame, la sete, la stanchezza, il dolore. Ma il condizionamento più forte è quello mentale. Viviamo dentro una descrizione del mondo che ci è stata data: genitori, scuola, religione, cultura. Come diceva Castaneda, abbiamo una narrazione interiore che ci guida, ma non l’abbiamo scelta. Per avere vero libero arbitrio, bisognerebbe prima uscire da questa narrazione, abbattere la mente condizionata, quella mente doppia che ci giudica, ci impone, ci sorveglia.
Il libero arbitrio può esistere solo se siamo liberi dai condizionamenti. Ma per la maggior parte delle persone non è così. Anche ciò in cui crediamo di credere spesso non è nostro, ma ereditato. Per esempio: credere in una divinità che salva o punisce non si può dimostrare, ed è un’esperienza del tutto soggettiva. Il fatto che molti condividano una stessa credenza non la rende più vera. È una fede trasmessa, e la fede stessa viene definita “dono”: ma se è un dono, perché non è data a tutti?
Il discorso si lega anche alla guerra, un’eredità del patriarcato. Nella mitologia greca, Esiodo parla dell’Età dell’Oro e dell’Età dell’Argento, epoche in cui gli uomini vivevano in armonia, senza guerre. La guerra appare solo nell’Età del Ferro, cioè con il patriarcato. Alcuni studiosi negano che il matriarcato sia mai esistito, ma basta osservare la figura di Atena per capire quanto potere fosse attribuito alla donna. Atena è armata, possiede l’egida, il potere della morte, ed è venerata come patrona della città di Atene. Una figura simile non sarebbe mai stata accettata in una cultura interamente patriarcale. Il paragone con la Madonna, umile e supplicante, fa capire la differenza abissale: Atena è sovrana, guerriera, madre e morte. È la memoria di un tempo in cui la donna era potere integrale, e il divino era ancora legato alla Terra.
Il libero arbitrio, quindi, non è un punto di partenza, ma un punto d’arrivo. Esiste solo dopo la liberazione dalla mente condizionata. Finché non vediamo quanto siamo programmati, non scegliamo davvero. Pensiamo di scegliere, ma eseguiamo schemi. Solo quando ci accorgiamo di questo, cominciamo a essere liberi.
Il concetto di libero arbitrio è molto più complesso di quanto la tradizione religiosa o culturale voglia far credere. Siamo stati educati a pensare di essere liberi nelle nostre scelte, ma in realtà agiamo all’interno di una struttura mentale profondamente condizionata, che si è formata nel tempo attraverso imposizioni culturali, religiose, familiari e sociali. Gli invasori di antiche civiltà lo sapevano bene: quando le donne votarono per Atena, ottennero il riconoscimento, ma vennero subito punite. Fu tolto loro il diritto di voto, fu imposto il velo, allungato il peplo, e si instaurò una mentalità repressiva che segnò l’inizio di una regressione profonda dell’istinto. Si formò così una mente condizionata, una struttura interiore che ancora oggi ci governa.
Tuttavia, non siamo completamente privi di libertà. Anche se non possiamo spezzare subito tutte le catene, possiamo cominciare a scegliere prigioni più grandi, più ampie. Ogni consapevolezza ci aiuta ad allargare i confini della nostra mente. E una delle prime cose da comprendere è proprio questa: non abbiamo pieno libero arbitrio, e accettare questa verità ci apre la possibilità di vedere cosa ci condiziona davvero.
Siamo condizionati nel rapporto uomo-donna, nel rapporto con la natura, con gli animali, con la sessualità, con il concetto di razza, con tutto ciò che ci è stato insegnato. Le reazioni verso persone gay, lesbiche, trans ne sono un esempio evidente: esistono ancora forti discriminazioni, che cambiano da regione a regione, da nord a sud, da famiglia a famiglia. Anche chi si dichiara aperto spesso non lo è davvero, come si vede quando il tema tocca qualcuno a lui vicino. L’apertura vera non è di costume: è interiore, e richiede coscienza.
In molte culture del passato, la sessualità era vissuta in modo diverso. In Grecia, per esempio, la pederastia era considerata normale. Ma oggi, con un altro tipo di consapevolezza, possiamo dire che un rapporto con un minore è immorale, perché il minore non ha la capacità di scegliere liberamente. Questo fa comprendere come i costumi cambino, ma la libertà vera non è adattarsi al costume, bensì vedere oltre il condizionamento.
Il giudizio, in particolare sulla sessualità femminile, è uno dei grandi strumenti di controllo. L’uomo viene giustificato, la donna condannata. Ancora oggi, se un uomo va con una prostituta è considerato solo “un po’ birichino”, mentre la donna viene disprezzata. Questo doppio standard è radicato in una mentalità maschile, patriarcale, e la religione spesso lo ha rinforzato invece che combatterlo. Ma, come ricordava chi ha citato il gesto di Gesù con l’adultera, la vera spiritualità non giudica. Salva, accoglie, libera.
Per avvicinarsi al vero libero arbitrio, occorre iniziare a vedere tutto questo. Solo comprendendo quanto poco siamo liberi, possiamo iniziare a scegliere con più coscienza. Anche se non possiamo fuggire subito dalla prigione, possiamo renderla più larga, più umana, più nostra. Ed è da lì che comincia la libertà vera.
Il libero arbitrio, così come ci è stato insegnato, è un’illusione. Ci viene detto che possiamo scegliere, ma le nostre scelte sono profondamente condizionate dalla cultura, dalla religione, dalla storia, dal tempo in cui viviamo. Anche la nostra sessualità ne è plasmata. I romani, per esempio, accettavano l’omosessualità solo a patto che l’uomo mantenesse un ruolo “attivo”, mentre il ruolo “passivo” veniva disprezzato come femminile, quindi inferiore. Cesare, che ebbe rapporti con uomini adulti, venne deriso da Catullo e soprannominato “la regina di Bitinia”. Ma Cesare, che era un uomo potente e libero interiormente, non si lasciò scalfire: perdonò Catullo e lo accolse a corte. Questo dimostra che la vera libertà è dentro, non fuori.
Con l’arrivo della Chiesa, l’omosessualità venne repressa, criminalizzata, demonizzata. E ancora oggi, nonostante la scienza moderna la riconosca come una variante naturale dell’identità umana, in molte culture viene punita con la morte o la prigione. Oscar Wilde ne fu un esempio. E questo dimostra che non siamo liberi, ma condizionati da sistemi di pensiero radicati.
Il libero arbitrio non può esistere se non si sono prima demolite le barriere mentali. E queste barriere sono ovunque: nella morale sessuale, nei rapporti uomo-donna, nei ruoli sociali, nel razzismo, nelle gerarchie di potere. Viviamo ancora dentro schemi che puniscono il diverso, soprattutto se è donna, se è omosessuale, se è fuori dagli standard. La strega non viene più bruciata sul rogo, ma viene ancora relegata in ruoli marginali, esclusa, ridicolizzata.
Perfino nel cibo siamo condizionati: ci piace qualcosa perché ci ricorda l’infanzia, un legame affettivo, o ci dà una sensazione di sicurezza. Anche questo è un condizionamento. E lo stesso vale per il caffè, il sonno, la sveglia, la paura di non essere all’altezza.
Essere veramente liberi significa abbattere queste sovrastrutture. Significa non essere schiavi della propria epoca. La tecnologia ci ha portato comodità, certo – e va benissimo – ma non può sostituire il mondo dei sentimenti. Non può diventare il centro della nostra esistenza. Perché un popolo non è grande per ciò che produce, ma per come vive in armonia con se stesso e con gli altri.
Infine, il vero cambiamento parte dal riconoscere che i sentimenti non obbediscono agli ordini. Non possiamo giurare amore eterno come se fosse una promessa razionale. Possiamo impegnarci, certo, ma il cuore ha una sua strada. Comprendere questo significa far crollare un altro schema mentale. E ogni schema che cade, ci avvicina un po’ di più alla libertà interiore.
LA RELIGIONE PANICA (6)
La religione panica è quella che non separa il creatore dalla creatura, ma considera tutto come un’unica realtà: la natura, l’uomo, il divino. È il ritorno all’Uno, alla monade indivisibile, come insegna la tradizione esoterica. A differenza della religione patriarcale che vede la natura come un sottoprodotto, inferiore, da dominare, quella panica la considera sacra. Gli antichi chiedevano perdono prima di tagliare un ramo o uccidere un animale. Oggi, invece, li uccidiamo e li torturiamo senza pietà. Abbiamo perso la sensibilità.
Lo dimostra il gusto diffuso per film violenti, per scene di stupri, torture, omicidi. Spesso il colpevole viene smascherato, ma non è quello il punto: è il piacere inquieto nel guardare dolore e violenza. Come mai? Perché abbiamo bisogno di forti stimoli per sentirci vivi. È lo stesso principio del rischio estremo: paracadutismo, Formula 1, sport pericolosi. Senza adrenalina, molti si sentono spenti, vuoti.
Questo è il segno di una scissione interna: la mente e l’anima non comunicano più. La mente, per proteggerci dal dolore, si è isolata. Ma così facendo, ci ha chiusi anche alla gioia, all’empatia, alla vita vera. Non sentiamo più la sofferenza degli altri, e nemmeno la nostra. Il canale tra mente e istinto è strangolato. Recuperarlo vuol dire tornare a sentire. Vuol dire guarire.
La religione panica non è una fede astratta: è una via per ritrovare l’unità originaria. È un modo per vedere il sacro nella terra, negli alberi, negli animali, in ogni respiro. E soprattutto, dentro di noi.
Sentiamo spesso gli altri come nemici semplicemente perché non li comprendiamo. Questo accade perché siamo scollegati da una visione più profonda dell’esistenza. Gli ermetisti, studiosi dell’occulto e delle leggi sottili dell’universo, avevano formulato il bellissimo concetto di anima mundi, l’anima del mondo. Ripreso anche da Aristotele, e poi nel Medioevo dagli alchimisti, questo termine indica l’idea che il mondo stesso possieda un’anima: una coscienza, un’intelligenza, una sensibilità che include ogni cosa.
L’anima mundi è più grande di noi, perché ci contiene. Noi abbiamo un’anima individuale, ma l’universo ne ha una collettiva. Aver separato la mente dall’anima – creando una mente artificiale, difensiva e razionale – ci ha tolto la capacità di percepire questa verità. E così il mondo ci appare vuoto, morto, senza spirito. Non lo sentiamo più vivo. Ed è proprio questa insensibilità che ci permette di fare guerre, di torturare, di uccidere, di distruggere.
Riscoprire la presenza dell’anima mundi è un risveglio profondo. Significa ricominciare a sentire il mondo non solo con i sensi fisici, ma con quelli interiori: vedere il vivente anche in ciò che appare inerte, percepire l’anima nella natura, negli animali, nelle piante, nei fenomeni. Il mondo è animato, solo che non lo vediamo più.
La natura ha una sua intelligenza sottile che si manifesta nelle “entità” di ogni specie: l’entità cane, l’entità formica, l’entità quercia, e così via. Esiste un genius della specie, una coscienza collettiva che guida ogni gruppo vivente. Basta osservare un formicaio di termiti, che può arrivare fino a 8 metri d’altezza: un’opera architettonica perfetta, senza un ingegnere visibile. Eppure tutto è coordinato. Da chi? Dallo spirito del gruppo.
Le api si orientano su chilometri, anche con il cielo nuvoloso. Gli uccelli migratori si radunano all’improvviso e, come spinti da una forza invisibile, cominciano a volare. Chi li guida? Non la mente individuale, ma il genius della specie. Una coscienza che parla non alla testa, ma all’anima.
Riconoscere questa intelligenza diffusa è tornare a sentire il mondo. Ed è l’inizio della guarigione dell’anima umana.
La religione panica concepisce il creatore e la creatura come un’unità indivisibile, un tutto, una monade. Al contrario delle religioni patriarcali che separano Dio dal mondo, essa riconosce la natura come sacra e animata. Gli antichi chiedevano perdono prima di abbattere un albero o uccidere un animale, mentre oggi, per via della perdita di sensibilità causata dalla mente separata dall’anima, la natura viene sfruttata e violata senza pietà.
La nostra società ha bisogno di stimoli forti, come la paura nei film violenti, per provare emozioni, perché ha perso il contatto con i sentimenti profondi. La mente, sebbene protegga dalle sofferenze, ci isola anche dalle gioie e dal dolore degli altri. Questo isolamento ha generato un mondo disanimato, privo di vita interiore.
L’anima mundi, concetto ermetico e aristotelico, rappresenta l’anima del mondo, un’intelligenza che comprende e sostiene tutto il creato. Ogni specie vivente è guidata da un genio della specie, un’intelligenza collettiva che coordina comportamenti complessi, come avviene nelle termiti o nelle api. Anche l’essere umano ha un genio della specie, ma è disconnesso da esso a causa della mente condizionata.
Le coscienze collettive, come quelle di gruppo, possono essere più potenti della somma dei singoli individui. Per questo è importante scegliere bene con chi si condivide energia. Nella magia, ciò che conta non è il rituale, ma lo stato d’animo: la magia dell’anima mira all’evoluzione e al bene, mentre quella mentale, che cerca potere, è distruttiva anche se efficace.
Quando non si separano più creatore e creatura, la magia diventa sacra, come nell’unione di Shiva e Shakti nell’induismo, dove anche la sessualità è vista come via spirituale. Nella nostra cultura, invece, il sesso è represso o distorto, riflesso della separazione tra mente e anima.
La perdita della religione panica, che vedeva il divino in ogni aspetto della natura, ha portato a una frattura tra creatore e creatura. L’antico senso dell’unità con il mondo è svanito, insieme al “Dio Pan”, simbolo del tutto, del panico inteso come percezione dell’intero vivente. Questa frattura ha fatto emergere una mente condizionata, disconnessa dall’anima e dall’istinto, che ha favorito il dominio della razionalità, dell’obbedienza e del controllo, dando origine anche alla guerra.
Oggi viviamo in un mondo basato sulla diffidenza e sul sospetto, in cui siamo costretti a difenderci dagli altri anziché sentirci uniti nel viaggio della vita. La religione attuale, maschile e frammentata, è fatta di regole e strutture mentali, mentre quella panica era naturale, sentita e unificante. La figura femminile, legata al sentire, è stata esclusa dalla leadership spirituale. La magia, che un tempo era parte integrante della spiritualità umana, è stata demonizzata, così come la memoria di civiltà matriarcali antiche, volutamente ignorate dalla storiografia ufficiale.
Infine, si sottolinea che il dominio maschile non è un diritto naturale, come viene spesso fatto credere, ma una costruzione storica e culturale, che ha oscurato modelli alternativi di società.
La donna, nelle società antiche, era considerata una guida spirituale e meritava rispetto, senza che questo implicasse la subordinazione dell’uomo, che aveva semplicemente altre funzioni. Nella società moderna, invece, l’uomo tende a imporsi come superiore, ma questa è un’impostazione mentale e culturale, non naturale. Esistono uomini con una grande anima e donne con meno consapevolezza, ma in generale l’uomo è più legato alla componente maschile e la donna a quella femminile. Solo attraverso l’unione armoniosa delle due polarità si può raggiungere una forma di sanità interiore ed equilibrio, utile anche nel campo spirituale o occulto.
Per arrivarci, è necessario liberarsi dagli schemi mentali, a partire dalla convinzione della superiorità maschile. Anche a livello fisico, uomini e donne si rispecchiano: entrambi presentano elementi anatomici dell’altro sesso non completamente sviluppati, a conferma di una base comune. Superare la separazione rigida tra maschile e femminile è uno dei passi più importanti – e più difficili – verso una maggiore consapevolezza. Altri schemi da superare riguardano la presunta superiorità dell’uomo sugli animali, su altre razze, o su altri orientamenti sessuali. Tutti questi pregiudizi verranno affrontati, uno per uno.
LA SIGNORA DELLE BELVE (7)
La Potnia Theron rappresenta la dea della natura selvaggia, un’immagine arcaica del femminile sacro, strettamente legata agli animali e alla forza primitiva della natura. In molte raffigurazioni antiche, la dea compare affiancata da due belve (come leoni o pantere) che inizialmente la guardano, indicando una connessione interiore tra il divino e la natura. Col tempo, questi animali vengono rappresentati rivolti verso l’esterno, segno del cambiamento della mente umana: da un orientamento verso l’interiorità a uno rivolto all’esterno.
Questa dea selvaggia contrasta nettamente con la figura della Madonna cristiana, che appare velata, composta, sessualmente repressa, in linea con una cultura che impone alla donna il dovere di coprirsi per non “tentare” l’uomo, a causa dell’incontinenza maschile. Nelle società antiche, come quella romana, la continenza era un valore: non eccedere nei piaceri, negli onori, nella devozione agli dèi o nella sessualità. L’uomo, invece, ha spesso cercato nella sessualità un modo per scaricare tensioni ed energie disordinate, in particolare quando è ansioso o disturbato interiormente. Questo uso del sesso come sfogo non è necessariamente colpevole, ma è il segno di un disagio che viene proiettato nel rapporto con l’altro.
La figura della madre è profondamente radicata nell’inconscio: la donna è vista come genitore primario, non solo per il parto, ma per l’accudimento, la protezione e la tenerezza verso i figli. Questo ruolo femminile genera una dipendenza affettiva molto forte, specialmente negli uomini, che spesso faticano a staccarsi dalle donne e reagiscono in modo distruttivo, come nel caso del femminicidio. Le donne, pur soffrendo, riescono più facilmente a riorganizzare la propria vita.
Tornando alla Potnia Theron, la signora delle belve rappresenta il femminile selvaggio e indomabile, strettamente legato alla terra e alla natura. Non è una divinità pietosa, ma esprime la forza istintiva e autentica della vita naturale. Comprendere la sua essenza significa vedere la realtà della Terra per quella che è, senza idealizzazioni. La Potnia non è signora dell’universo, ma della Terra, che è solo una piccola parte del tutto.
La mente artefatta, invece, alimenta l’illusione di essere immortali e separati dalla natura, causando una forte paura della morte. Paradossalmente, è proprio questa mente che, cercando di evitarla, ci rende prigionieri del terrore di morire — perché sa che, se ci liberiamo da lei, sarà lei a cessare di esistere. Il superamento del concetto di morte, inteso come attraversamento interiore e non come fine fisica, è ciò che gli antichi definivano iniziazione o “piccola morte”. Non si tratta di prove esterne o rituali, ma di un processo naturale che avviene quando gran parte della mente condizionata crolla. In questo contesto si inserisce il tema dei genitori e dei figli, su cui è costruita la base della società, spesso idealizzata.
La famiglia viene spesso vista come rifugio, ma i motivi per avere figli raramente sono legati all’istinto — ormai in gran parte perduto. La donna desidera figli per sentirsi protetta e creare un ambiente che soddisfi i suoi bisogni affettivi. L’uomo, invece, spesso li accetta per dovere sociale, più che per desiderio reale. Il timore dell’omosessualità nei figli maschi o della promiscuità nelle figlie femmine riflette un’educazione fondata sulla paura e sul controllo.
Amare davvero i figli è difficile. Molti genitori si occupano dei loro bisogni materiali (scuola, salute, denaro), ma lo fanno per senso del dovere, non necessariamente per amore autentico. L’amore richiede consapevolezza e libertà interiore, non solo il rispetto di un ruolo sociale. La maggior parte dei genitori non sa davvero cosa significa amare i figli. L’amore autentico è raro, perché spesso si confonde con il controllo o con il dovere. I genitori tendono a proiettare sui figli i propri bisogni o traumi passati, invece di conoscere davvero chi hanno di fronte. I figli sono individui autonomi, non copie dei genitori.
Si suggerisce di allevare i figli con lo stesso spirito con cui si trattano i nipoti: con dolcezza, comprensione e senza ossessione. Il vero amore non è viziare, ma ascoltare, dialogare e porre limiti con rispetto, senza colpevolizzare. I figli devono sentirsi liberi di chiedere, ma i genitori hanno la responsabilità di decidere in modo giusto e spiegare con chiarezza.
I figli non vanno picchiati, né umiliati, ma rispettati come persone in crescita. Così come si onorano padre e madre, bisognerebbe imparare a onorare anche i figli, riconoscendo la loro dignità, età e mentalità.
Voler bene ai figli significa anche permettere loro di distaccarsi, ma non forzatamente. La cultura italiana, pur essendo spesso definita “mammona”, conserva un calore e un’affettività che altrove manca. In molti Paesi del Nord Europa, ad esempio, i figli vengono spinti a lasciare casa a 18 anni, ma questo può generare una separazione prematura e forzata che spegne la sensibilità. Invece di diventare indipendenti, molti giovani si anestetizzano, soffocano i sentimenti e si rifugiano nel lavoro o nell’alcol, perdendo il contatto con le emozioni e le relazioni profonde.
L’indipendenza non è il frutto di uno sforzo esterno, ma di un lungo cammino interiore. Nessuno è davvero indipendente finché non comprende da cosa dipende. Anche la dipendenza, però, può essere utile alla crescita, perché spinge a cercare, capire e liberarsi.
I bravi genitori sono rari, perché anche loro sono stati figli non compresi, pieni di condizionamenti. Per comprendere i figli, devono prima comprendere se stessi. Non esiste un percorso predefinito per essere felici: amore, realizzazione e serenità non si ottengono solo seguendo gli “schemi giusti”.
La felicità nasce dall’essere stati amati, perché solo chi è stato amato impara ad amare. E saper amare significa accettare il mondo, accettare gli altri e riconoscere la realtà senza giudicarla. Non è questione di tolleranza, ma di accettazione autentica dell’esistenza così com’è.
Accettare gli altri significa riconoscerli per come sono, senza volerli cambiare. L’accettazione non è passività: significa sapere chi è l’altro, rispettarlo nei suoi limiti, ma anche proteggere se stessi, ponendo dei confini chiari, senza giudicare o fare la predica. Questo vale per tutte le relazioni – coniugi, figli, genitori – ed è fondamentale anche per la reciprocità: ciò che vale per uno deve valere anche per l’altro.
Essere genitori è difficile, anche perché si è stati figli a propria volta, spesso non compresi. Idealizzare i genitori dopo la loro morte è comune, ma può nascondere rabbia repressa per un’infanzia segnata da mancanze o violenze. I bambini non possono ribellarsi, perciò si adattano, ma spesso a costo della propria anima. Da adulti, però, è necessario riconoscere quelle ferite, altrimenti si rischia di riversarle sugli altri.
Questo per me è un tema molto caro, si avvicina al nucleo di quello che è stata tutta la mia vita. Sono stata cresciuta, dalla morte di mia madre, da mio padre e dalla mia nonna paterna, che, oserei dire, sono forse i primi precursori terrestri degli schemi mentali. Hanno condotto tutta la loro vita a fare quello che era giusto o etico fare, non spendevano un secondo nel vivere un’emozione o nel voler guardare oltre la loro maschera. Tutto era un dare per ricevere, tutto era aspettativa, tutto era guidato dalla ragione e non c’era amore. I primi tempi che passavo con loro, oltre che essere molto triste, ero anche molto scandalizzata. Avevo 10 anni appena compiuti e nei loro pranzi o cene erano muti e quando parlavano di qualcosa o criticavano gli altri, o si lamentavano di me, o parlavano del nulla cosmico (di Forum, della Juve o della Formula 1). Non facevano domande terrorizzati che io potessi avere bisogno di loro e quando le facevano mi facevano capire in tutti i modi che non dovevo essere una pressa al culo, quindi ero abbastanza intelligente da cercare all’esterno ascolto e condivisione. Li guardavo e pensavo fossero un po’ alieni, non capivo come mai tutta quella freddezza li circondava e nonostante quel gelo come mai dovessero per forza vedersi nelle festività o chiamarsi al giorno del compleanno. Non si confrontavano mai, non raccontavano mai nulla di interessante e non c’era uno scambio autentico di affetto. Anche il bacino sulla guancia che mio padre dava a mia nonna (quasi mai viceversa) mi sembrava una richiesta assurda stile ‘mamma guardami che bravo figlio sono, sono qui per te’, ma lei rimaneva completamente ignara ed indifferente ed era troppo occupata a versare la pasta alle 11.58 perché alle 12 bisognava mangiare in silenzio. È capitato qualche volta che siamo arrivati da loro alle 12.15 ed erano impaperati da dio, sia mia nonna sia mio nonno. Un muso lungo per quel quarto d’ora di ritardo, ed io lo sapevo che mio padre avrebbe preferito ammazzarsi che fare ritardo ed ero già pronta: ne avrebbe parlato tutta la domenica, cercando di incolparmi per discolparsi. Non mi chiedeva mai come mai stessi così male con i miei nonni, perché se no poi avrebbe dovuto prendere una posizione e realizzare a sua volta quanto stesse male pure lui con loro. Ad oggi sono molto anziani e lui è oberato di senso del dovere, ancora sostiene di amarli più della sua stessa vita e non è ancora pronto per vedere quanta rabbia e quanta porcheria irrisolta ha nei loro confronti. Non sono di certo io quella che da mamma chioccia lo deve istruire, però una cosa bella l’ho fatta. Ho dato libero sfogo al mio sentire di guardare con la consapevolezza che ho oggi a tutte quelle dinamiche del passato che mi tenevano inchiodata con i piedi sotto ad un tavolo che non mi accoglieva perché non era in grado di sentirmi e di sentirsi. Non gliene ho mai fatto una colpa, mi dispiaceva per loro e per quello che avranno sicuramente subito, però rimane il fatto che non li obbligava nessuno a rimanere ancorati nel malessere. Erano liberissimi di imparare dai loro errori, dalle loro sofferenze e dalle cose belle, ma non hanno mai voluto farlo. In un certo senso ero arrivata io come dono, avrebbero potuto concentrarsi su di me e li avrei trasportati in un bel mondo fanciullesco e donato loro un po’ di leggerezza, ma hanno preferito massacrarmi, mettermi ansie e cucirmi addosso paure e quindi appena ho potuto scegliermi anche dal punto di vista anagrafico, così ho fatto.
Tutto questo si collega alla magia, che non è la figura della madre amorevole, ma della Potnia Theron, la signora delle belve, la natura selvaggia. Avvicinarsi alla magia – e quindi alla natura profonda – è un atto rischioso: essa ha due volti, uno costruttivo e uno distruttivo. Gli antichi la raffiguravano come un drago, con o senza ali. Le ali, simbolo della mente, indicano una magia più instabile e pericolosa; la natura senza ali, invece, è più terrena e costruttiva.
La magia, come la natura, va affrontata con rispetto e consapevolezza. Senza conoscenza, può condurre alla paura o alla follia. Ma con cautela e preparazione, può diventare un potente cammino di trasformazione.
“Ci vuole cautela sempre, ma ci vuole conoscenza, perché ci sia la cautela occorre che ci sia la conoscenza.” Questa è una delle mie frasi preferite dette dalla Dottoressa.