Stanotte ho sognato che ero in giro in bici.
C’era ancora un po’ di luce ma il cielo si faceva viola, e quella specie di brivido sottile — tra il romantico e il pericoloso — mi scivolava sulla pelle.
Cercavo un posto dove legarla. Non bastava una rastrelliera qualunque. No, volevo qualcosa di sicuro. Alla ruota posteriore, pensavo, così è più difficile da rubare.
Una catena alla ruota posteriore. La mia libertà chiusa bene, mentre io cercavo un posto dove essere solo corpo e non allerta.
Mi sono svegliata con la solita tensione nel petto, quella che non ha un nome preciso ma che riconosco ogni volta: la paura che anche la libertà sia un’esca.
La bici, in fondo, è un simbolo perfetto. Vai dove vuoi, ma sei esposta a tutto. È fragile.
Non ha vetri, non ha porte, non ha cintura di sicurezza. Sei tu, la tua schiena, e il vento. E se qualcuno ti vuole fare del male, devi solo sperare di accorgertene un secondo prima.
Lo so perché quella bici l’ho usata davvero. Dopo un incidente in auto che non mi ha spezzato le ossa ma mi ha rotto qualcosa dentro, l’unico modo che avevo per spostarmi era salire su quella sella, respirare a pieni polmoni e fingere di essere tranquilla.
Ma tranquilla non la ero mai.
E la notte...
La notte è ancora più bastarda, perché non serve che accada qualcosa, basta che potrebbe accadere.
Ed eccomi: io, che cammino da sola alle tre, alle quattro, perché cazzo sì, voglio sentirmi libera, voglio poterlo fare, voglio non dover chiedere permesso.
E allo stesso tempo me la faccio sotto: ogni macchina che rallenta, ogni passo alle spalle, ogni strada che curva troppo, ogni silenzio troppo pieno.
Io la notte la amo, cazzo. Mille volte più del giorno.
Il giorno è pieno di rumore, di aspettative, di occhi addosso.
La notte no.
La notte è silenzio, respiro, luci soffuse che sembrano chiedere permesso.
È lo spazio in cui posso essere intera senza dovermi spiegare.
Nessuno mi pretende. È il momento in cui finalmente non devo performare niente. E anche se faccio qualcosa di mio ho sempre quella sensazione meravigliosa di solo stare.
E mi fa impazzire, e girare di cazzo, il fatto che perfino quello che amo — la mia fottuta, meravigliosa, sacrosanta notte — me la devo vivere con l’ansia addosso o comunque fingendo tranquillità.
Anche chiusa in casa.
Anche con le porte serrate.
Anche con le gatte che dormono accanto.
Perché il mio cervello non lo sa che è tutto ok. La paura mica bussa, entra e si siede sul divano anche se non l’ho invitata.
E allora io sto lì, ad amare la notte con tutto il cuore e a viverla come una minaccia in standby.
Mi girano le palle perché non è giusto. Ho la sensazione come se avessero tolto la strada, i giri notturni, la possibilità di camminare a caso, avvicinandosi persino ad incrementare con le rotture e le preoccupazioni anche da ferme nel proprio letto con la finestra socchiusa a piano terra.
Ma vaffanculo.
Io la notte non la mollo e vorrei non mollarla mai, ma ormai mi rendo conto che devo continuare a viverla così, col cuore che accelera per niente.
È questo mondo che ha rotto tutto.
Mi dico: "Se devono succedere, ste cose succedono anche di giorno".
Vero, ma la sera ha quel buio che ti scopre, che ti fa pensare che sei solo un corpo — e il mondo, spesso, non lo tratta come casa ma come bersaglio.
Poi cambio sogno, ma mica cambia la sostanza. Nelle mie innumerevoli notti di studio passo nei miei sogni da uno scenario all’altro.
Sono di nuovo io, ma stavolta ci sono le mie gattine.
Siamo in un posto nuovo. C’è erba, c’è aria, c’è spazio, ma anche un bordello di case e sullo sfondo una strada oberata di auto. Io e la mia compagna ci diciamo: “Dai, proviamo a lasciarle libere, senza guinzaglio. Magari non si allontanano troppo.”
Illusione romantica.
Nemmeno cinque secondi e già le vedo andare lontano, ma non come se stessero esplorando, ma con quella loro camminata che nella realtà hanno quando stanno facendo un qualcosa di cui non sono convinte.
E subito, nella mia testa da sognatrice c’è l’apparire di tre immagini: asfalto, auto, morte.
La mia ansia si fa visione perché io lo so che là fuori c’è un mondo che se ne frega.
Che se schiacci una piccola vita non ti fermi neanche, che se vedi un gatto randagio non è che pensi “fammi vedere se sta bene”, no — è un fastidio, una presenza inutile, un ostacolo.
Io vedo come vengono trattati i gatti.
Randagi, di proprietà, amati, smarriti.
Li lasciano uscire e poi “boh, è sparito”.
Li trovano morti e li ignorano. Li usano come proiezioni del proprio ego e li trattano come giocattoli con le zampe.
E io, allora, non ce la faccio a fidarmi. Non di loro. Degli umani.
Parliamone…
A me gira il cazzo — espressione di un’eleganza disarmante — ma è così, non c’è parola che descriva meglio la sensazione.
Siamo l’unica specie su questo pianeta di cui dovremmo avere paura di noi stessi.
Gli animali si difendono da predatori più forti.
Noi ci ammazziamo tra di noi per soldi, per religione, per noia, per maschilismo, per un like, per “perché sì”.
Noi violentiamo, facciamo guerre, colonizziamo, sfruttiamo, poi facciamo le campagne “adotta un cucciolo” e ci sentiamo a posto.
Bravi. Che coscienza.
L’essere umano è la specie più evoluta, dicono, ma l’unica che ha inventato il concetto di preda culturale.
Se nasci donna, trans, queer, povera, non bianca, non conforme — bene, hai appena ricevuto il tuo biglietto per il grande gioco della sopravvivenza urbana. E se sei tutte le altre versioni non descritte dal corsivo, comunque buona fortuna.
E mentre io cerco di legare la mia bici, di trovare il posto perfetto, di non farmela rubare, dentro me, lo so: la cosa che rischio di perdere più spesso è il coraggio.
Eppure ce l’ho. Anche quando mi tremano le mani e mi cago addosso, anche quando sto per scoppiare a piangere per la gattina in sogno, ce l’ho.
Insisto nel voler vivere comunque a pieno, nel non rinunciare a niente anche se mi ritrovo in una strada di piena campagna in auto da sola alle 4 di notte in un mondo che non mi vuole libera.
Ma per ora siamo qui con la catena alla ruota posteriore a batterci per un qualcosa che non abbiamo scelto.
L’agitazione del tornare a casa in questi ultimi anni che ho di nuovo un mio mezzo si è placata solo perché o so che c’è qualcuno in casa che mi aspetta o ho il coltellino nel calzino o non c’è niente di tutto questo, ma faccio finta di non aver paura. In macchina, ovviamente, mi sento più protetta, meno vulnerabile, ma c’è sempre quel momento in cui devo parcheggiare e tornare a casa a piedi. Indimenticabili i momenti in cui vivevo in centro storico con le sue viuzze di merda piene di pazzi.
E ogni tanto — tra un sogno e l’altro, tra un pensiero e una ciotola di croccantini — arriva lui.
L’esperto di vita.
Quello che ti dice: “Eh, ma di cosa hai paura? Non devi avere paura.” Il fenomeno che vive in un mondo tutto suo, dove sembra tutto meraviglioso perché davanti ai suoi occhi in live non è mai successo un cazzo. L’idealista che ti consiglia di “sbattertene e fare come meglio credi in onore di una libertà”. Ma libertà de che? Fittizia, caro.
Mi dice che sono esagerata, che non tutto è così male e che bisogna vedere il bello.
Grazie al cazzo.
Io il bello certo che lo vedo, oh se lo vedo.
Lo vedo nei loro musetti mentre dormono di traverso, lo vedo nell’alba che ti fa dimenticare la merda per tre secondi, lo vedo nelle mani di chi cura, negli occhi di chi accoglie, nei gesti di chi protegge.
Non è questo che nego.
È la difesa del brutto che non tollero. Questa fottuta abitudine a giustificare l’ingiustificabile.
“Eh ma è sempre stato così.”
“Eh ma non tutti gli uomini.”
“Eh ma sono solo animali.”
“Eh ma mica possiamo cambiare il mondo.”
Ecco.
Ma c’è un concetto base che la stragrande maggioranza, che dà aria alla bocca, non ha ancora capito, ovvero che questa vita qui, non è una roba che accade e basta.
È una cosa che si decide. Non da soli, ma ognuno ha una parte.
E io la mia parte la voglio fare senza chiudere gli occhi e senza dirlo sottovoce.
La vita non è una linea retta, non è un percorso garantito.
È una curva cieca in bicicletta.
È un filo che attraversa la gattina, e tu che non sai se tirarlo o lasciarlo lì.
È la paura di uscire di casa e la voglia disperata di volare.
È sentirsi stretti nella pelle e comunque volerci restare dentro.
E se tutto quello che posso fare è raccontarlo senza filtri allora lo faccio, perché ogni parola è scritta per non farmi portare via.
E poi arrivano loro.
I portatori sani di frasi da Baci Perugina spiritualmente gaslightanti.
Quelli che ti dicono: sorridi di più, l’universo restituisce ciò che dai, lavati la faccia, sistemati i capelli, pensa positivo, è solo una fase non ci pensare poi ti passa.
Mi chiedo sempre da dove escano.
È tipo un club segreto?
“La paura è solo nella tua testa.” Si continua a ripetere stile Dalai Lama.
Certo.
Come il patriarcato e gli scemi.
Solo illusioni, vero?
Come i gatti morti in mezzo alla strada.
Come le statistiche sulle donne aggredite.
Come la memoria corporea che ti fa girare con le chiavi tra le dita come lame.
La paura, se me la togli, mi togli anche l’intelligenza che mi ha fatto arrivare viva fino qui. Perché detto sinceramente, la paura mi ha salvata il culo più volte dell’ottimismo.
La paura è l’istinto che ti dice "non fidarti di quel tizio", "non salire su quella macchina", "non lasciare la gattina lì fuori".
E anche se a volte è eccessiva, anche se a volte è stanca, io con lei ci parlo.
È un personaggio scomodo, ma onesto.
La paura non mi ha mai detto: “Va tutto bene.”
Mi ha detto: “Presta attenzione.”
E a volte mi ha sussurrato: “Resisti.”
Quindi non dico che voglio scontrarmi con la paura, ma con il problema alla base. Il fatto che devo avercela per proteggere me stessa e chi amo a causa degli scemi sopra riportati.
Poi no, ragionando. Se proprio vuoi parlare ed uscirtene con qualche massima, allora chiedimi cose.
Tipo: “cosa ti fa paura?” “Cosa posso fare per farti sentire più al sicuro?” “Vuoi che ci resti mentre racconti?”
Ma no, troppo lungo. Risulterebbe troppo sovrumano. Meglio un bel “dai, non pensarci!”
Comunque non si tratta solo di ansia e paranoia.
È addestramento. È come se il mio cervello, da sempre, stesse mappando il pericolo per anticiparlo. Non ci ho messo talento, ci ho messo necessità.
Se fossi nata in un mondo dove la notte era solo notte e non un terreno di caccia, magari oggi farei yoga in Duomo alle 2.30. Invece a quell’ora controllo le facce su tram e metropolitane, targhe, vicoli e finestre.
Altro che terzo occhio: io ne ho cinque e tutti aperti.
Se fossi biologicamente un uomo, forse non dovrei giustificare ogni precauzione.
Legare bene la bici sarebbe “furbizia”.
Proteggere le mie gatte sarebbe “cura”.
Camminare da solo di notte? “Uno forte, indipendente, che non ha paura.”
Ma siccome sono una donna — e si vede, anche se a volte la gente non sa bene in che casella infilarmi sembrando un adolescente di 13 anni— ogni gesto viene letto con un filtro storto.
Diventa allarmismo.
Diventa debolezza.
Diventa “ma dai, rilassati”.
Prendo sulle scatole la situazione in generale, a nome mio e di tutte, perché le nostre libertà non fanno rumore. Sono piccole e leggere: camminare scalza, accendere una sigaretta senza spiegare niente a nessuno, mangiare sul divano con le gambe incrociate, lasciare che una delle gatte si infili sotto la maglietta mentre leggo, ridere da sole per un pensiero cretino, pedalare in una strada deserta con la musica che mi spacca i timpani.
Sono frammenti, ma sono veri.
Non lo so poi come potrebbe finire questo brivido costante, se ci sarà un ulteriore degenero o se l’unica soluzione sarà quella dell’annientamento per poi riprovarci (visto giusto un paio di cosucce che rendono orrendo questo mondo).
A volte mi chiedo come sarebbe una vita senza paura. Non dico perfetta — solo vivibile. Una vita dove non devi sempre pensare “e se?”. E se gira male. E se mi segue. E se non torna. E se non capisce.
Che faccia ha una giornata dove non servo a difendermi? Dove posso solo essere?
Non lo so immaginare. E non perché non ci abbia provato — è che mi manca il materiale.
Mi mancano i precedenti, mi mancano i racconti in cui una come me cammina da sola e non succede niente, mi manca l’idea che la libertà non debba essere strappata con i denti.
Ma qualcosa, nel fondo, si muove come una luce fioca in un vicolo.
Forse non so dove sto andando, ma so da cosa sto cercando di uscire e già questo mi sembra un miracolo.
Però miracolo abbastanza inutile. Per come stanno andando le cose quello che mi servirebbe è un mantello dell’invisibilità stile Harry Potter.
A volte ad accendermi i nervi è anche il modo in cui ti chiedono “sei sola?”, che sembra una domanda ma è una minaccia.
A volte è il fatto che se mi proteggo, sto esagerando e se mi lascio andare, me la sono cercata.
L’invisibilità invece sarebbe bellissima perché potrei fluttuare ovunque in un mondo fatto di ombre.
Camminare in una strada buia senza fare la lista mentale delle vie di fuga.
Smettere di stringere le chiavi in mano come un’arma.
Non aver paura ogni volta che un’auto rallenta accanto.
Portare le mie gatte fuori, anche senza guinzaglio, e poi tornare tutte intere.
Evitare il marpione del piano di sopra che ti aspetta sul pianerottolo con la scusa del “buongiorno” alle 22:47.
Scendere a buttare la spazzatura senza mandare un vocale a qualcuno per sicurezza.
Salire le scale senza pensare se ho chiuso bene il cancello.
Passare davanti a un gruppo di uomini bevuti senza sentire la pelle che si contrae.
Fare uscire tranquilla a piedi in orario serale la mia migliore amica senza fare il check mentale: chiavi-pronte, spray-in-tasca, auricolare-finto, io-disposta-ad-accompagnarla-sotto-casa-in-auto-e-guardarla-finché-entra. Questo forse è l’aspetto che mi tocca di più, non nel senso che mi pesa farlo, ma nel senso che ci sono donne un po’ più fragili, come lei, che questa costante paura le paralizza e le impedisce di vivere ogni sera come se fosse normale.
Quando la paura si trasforma in terrore sordo è orribile, persino il rettilineo che hai sotto le ruote sembra mutare forma, i giochi di luce smettono di essere quelli dei fari dopo che hai preso una leggera buca e diventano cattivi che ti stanno aspettando per farti del male, invochi chissà chi per sperare non ti si buchi una gomma, sia mai che devi accelerare per scappare. Diventa tutto un incubo e tutti quei momenti che dovrebbero essere di spensieratezza si fanno atroci. I film che hai visto per darti una scossa diventano reali con assassini e stupratori pronti solo per te.
Ne risento parecchio perché non tutte hanno la forza fisica e mentale di scontrarsi con il fastidio, anche perché, parlandoci onestamente, sono ben basse le probabilità di farla franca.
Vorrei un mondo dove non serve fingere di parlare al telefono per proteggerti e gradirei che la smettessero con ‘sti “esageri” mentre le persone si chiedono ogni giorno dove potrebbero evitare di spaventarsi.
Sarebbe gradito un autobus notturno pieno, ma non di occhi addosso.
Poter rispondere “no” e non dover aggiungere “ho un fidanzato” perché il primo non basta.
Mostrare la pelle senza che diventi bersaglio, essere gentile senza ricevere proposte e potersi arrabbiare senza essere chiamata isterica.
Vorrei che “donna” non fosse sinonimo di pericolo e mi sembra alieno nel 2025 parlare di queste cose eppure, appunto non so come finisce…
Adesso racconto questa.
Avevo vent’anni.
Shorts larghi di quelli maschili, cappellino con la visiera al contrario, auricolare all’orecchio, canna tra le dita, parlavo con un’amica.
Ero me stessa, e per me, in quel momento, voleva dire sentirsi forte.
Forte di quel piccolo spazio mio, di quella bici sportiva a canna dritta, maschile anche lei, che mi stava portando a casa.
Parcheggio nel cortile che dava sulla strada. Era notte piena. Quella che amo.
Poi una genialata. Un fruscio alle mie spalle. Pelle d’oca sulla nuca.
Il mio corpo si era bloccato prima ancora di capirci qualcosa.
Mi giro nella penombra degli alberelli. E da lì, una voce.
“Ciao.”
Era un tizio del secondo piano con cui non avevo mai parlato prima, ma che spesso giracchiava in quartiere a cazzo di cane.
Allora, A non doveva essere lì e B non doveva salutarmi emettendo quel suono orrendo, ma lo ha fatto con la disinvoltura di chi non ha mai dovuto calcolare se stava spaventando qualcuno e con la leggerezza di chi non sa cosa significa avere un infarto.
Io?
Io ero già pronta a spaccargli la faccia. Non ho collegato subito fosse lui perché mai immaginavo un deficiente in piena notte seduto tra gli arbusti.
Ma questa è solo metà della storia, perché prima c’era stato il treno.
Treno delle 00.25, da Milano a Pavia.
Uscivo dalla città con la solita sensazione di aver giocato troppo col fuoco.
Camminata veloce sul marciapiede del binario, vagone dopo vagone.
Uno era vuoto e mezzo spaccato.
Uno con uno che russava.
Uno con due ragazzi che erano morti, ma non lo sapevano.
Uno con nessuno.
Fino a quello dietro la locomotiva. Mi ci sono messa per strategia pensando: “o questo o chiuditi nel cesso”, però il bagno puzzava da morire e avevo letto che se avessi urlato il macchinista avrebbe potuto sentirmi dal vagone, ma non dal bagno.
Beh, viaggio da incubo, cuore in gola. Poi, lo scatto una volta arrivata.
Scendere.
Camminare a duecento chilometri orari. Un male atroce alle caviglie dalla velocità.
Andare a riprendere la bici.
Volare a casa.
Non c'era vento, ma sembrava di sì — ero io che fuggivo dal fantasma della probabilità. Per poi arrivare a casa e? Incontrare il deficiente.
Si può solo immaginare il mio status del momento. Ah, notare, in casa non ci sarebbe stato nessuno. Ero da sola.
Quando l’ho raccontato, qualcuno mi ha detto: “ma potevi chiedere un passaggio.”
Sì.
Certo.
Posso chiedere sempre un passaggio. Posso avvisare. Posso farmi accompagnare. Posso fare mille piani per sopravvivere. Ma com’è che a nessuno pare assurdo che devo farlo? Com’è che il peso di questa merda finisce sempre sul mio senso di organizzazione?
Io voglio uscire.
Voglio tornare. Voglio poter vivere una cazzo di notte senza fare la logistica del trauma ogni volta.
E invece...
Ogni volta mi sembra assurdo chiedere aiuto, non perché sia troppo orgogliosa —
ma perché mi fa schifo dover dipendere da qualcuno per sopravvivere a un mondo che dovrebbe già proteggermi.
Infatti tendo a non farlo arrangiandomi e forse è per questo che ho l’intestino fin troppo regolare.
E per troppo regolare intendo veramente troppo.