Ho incontrato le parole di Gabriella Tupini per caso, o almeno così sembrava. Ma subito mi sono resa conto che non si trattava affatto di un incontro qualunque. Le sue parole non si sono fermate al livello della razionalità, come fanno tanti discorsi che ascoltiamo e dimentichiamo in fretta. No. Le sue parole mi hanno attraversata. Hanno scavalcato le difese della mente e sono scese più giù, in zone dimenticate o appena accennate della mia anima. Zone dove qualcosa ha cominciato a vibrare, a risvegliarsi. Non è stato tanto un capire, quanto un sentire profondo. Un riconoscimento immediato. Come se quello che diceva non lo stessi ascoltando per la prima volta, ma lo stessi ricordando.
Da questa esperienza così intensa è nato il desiderio di raccogliere, riordinare, e portare alla luce i contenuti dei suoi video. In questo spazio, con lentezza e rispetto, riassumerò i suoi primi interventi – continuando in questo post dal 15esimo al 16esimo, cercando di restituire il nucleo vivo del suo messaggio, senza snaturarlo.
Ma non mi fermerò lì. Accanto ai riassunti, intreccerò riflessioni personali, esperienze, intuizioni e autoanalisi. Perché le parole di Gabriella non parlano solo in astratto: chiedono di essere incarnate. Voglio provare a farle passare attraverso di me, metterle in dialogo con la mia storia, con le mie ferite, i miei condizionamenti, la mia ricerca. Non come un esempio da seguire, ma come una traccia da percorrere insieme, se vorrete.
Questo spazio sarà quindi un doppio viaggio: dentro la voce di Gabriella e dentro la mia. Dentro un sapere che è insieme arcaico e attualissimo, e dentro il tentativo di viverlo oggi, nella concretezza del quotidiano. Perché sento che, se davvero vogliamo cambiare, dobbiamo partire da lì: da ciò che ci attraversa, non da ciò che semplicemente ci convince.
UOMINI E DONNE (15)
Gabriella Tupini apre questo video con una precisazione importante: non ritiene né il genere maschile né quello femminile superiore, ma evidenzia come storicamente il patriarcato abbia dominato e sottomesso il femminile, cosa che molti oggi ancora si ostinano a negare nonostante le evidenze storiche e simboliche. Fa l’esempio del mito di Giove che ingoia Meti, la dea madre della sapienza, lasciando intendere come il patriarcato abbia inglobato e controllato il potere femminile, in particolare quello oracolare. Le profetesse, infatti, continuarono a operare anche nel contesto patriarcale perché gli oracoli erano ancora richiesti e ben pagati. La sua riflessione prosegue con l’osservazione che molti uomini omosessuali risultano più intelligenti emotivamente rispetto agli uomini eterosessuali, non per un motivo “di razza” ma perché non si sono potuti nascondere dietro le strutture mentali e sociali dominanti, essendo spesso cresciuti in contesti di esclusione. Tuttavia, sottolinea che anche tra gli uomini eterosessuali esistono individui profondi, così come non tutte le donne sono sensibili e intuitive: la questione non è di genere, ma di apertura dell’anima.
Rivolge poi uno sguardo critico alla cultura occidentale che ha occultato e ritardato la diffusione della conoscenza su civiltà precedenti al patriarcato, come dimostra la vicenda editoriale del celebre libro di Bachofen sul matriarcato, pubblicato in Italia solo un secolo dopo per ragioni ideologiche. Se si ammette che c’è stato un tempo in cui le donne erano al centro della cultura e del potere spirituale, crolla l’idea che la subordinazione femminile sia naturale.
Riflette sul ruolo complementare e necessario della mente e dell’anima nell’essere umano sano: la mente razionale serve per relazionarsi con l’esterno e organizzare la realtà, l’anima per sentire se stessi e gli altri. Questo equilibrio però è spesso spezzato, come nel caso delle persone logorroiche, che parlano senza ascoltare. Non lo fanno per cattiveria, ma perché sono spinte da un’ansia inconscia, che le porta a usare le parole come barriera tra loro e il mondo. Non possono permettersi il lusso di sentire davvero, né se stessi né gli altri, perché un contatto autentico con i sentimenti li metterebbe in crisi.
Gabriella approfondisce il tema dell’aggressività repressa e della difficoltà a comunicare in modo sereno con gli altri. Prende spunto dall’esempio delle persone logorroiche, che spesso parlano troppo per proteggersi dall’ansia e dal contatto emotivo, ma spiega anche che chi le ascolta senza riuscire a porre un limite ha anch’egli un problema: non riesce a dire di no o a interrompere l’altro perché inconsciamente rivede in lui i propri genitori, e teme di essere rifiutato o punito se si afferma.
Questa dinamica nasce da un’infanzia in cui i genitori, pur inconsapevoli, sono stati invadenti e direttivi, generando nei figli una rabbia profonda ma repressa, perché allora non si poteva esprimere contro l’autorità genitoriale. Quando oggi una persona ci aggredisce o ci critica, anche in modo lieve, quella vecchia rabbia si riattiva e si somma alla reazione del momento, creando una risposta sproporzionata che però non riusciamo a manifestare. Anzi, spesso ci blocchiamo, temendo di esplodere o di apparire fragili, perché quella rabbia infantile era spesso accompagnata da lacrime e impotenza.
Per uscirne, spiega Gabriella, è necessario imparare a distinguere tra la rabbia del passato e quella del presente. Solo allora si potrà rispondere all’altro in modo adeguato, senza paura e senza ferire, mantenendo la propria integrità e riuscendo a comunicare davvero.
Negli anni mi sono scontrata tantissime volte infatti con persone che o parlavano solo loro o fintamente ti chiedevano un ‘come va’ introduttivo per poi partire a bomba con il loro monologo e il mio non riuscire a sviare o fermarmi era dato da un dispiacere. O meglio, quello che credevo fosse un dispiacere. Avevo quasi il terrore, alcune volte di più, altre di meno, di far capire all’altro che non mi interessava niente di quello che stava dicendo, e quindi stavo zitta ed assorbivo. Capivo che non facevano così con me perché ero speciale, ma lo facevano bene o male con chiunque gliene desse la possibilità, ma quando vedevo altre persone ‘snobbare’ quel loro essere logorroici mi ricordo che pensavo: ‘che maleducati…’ quindi io stavo bene attenta e cercavo di prestare attenzione anche se questa era prossima ad abbandonarmi dopo soli 5 minuti. Ero nel loop di quello che era eticamente giusto fare e intanto di me non si parlava e io mi sentivo asciugata e basta. All’altro forse serviva, forse no, finché mi sono stufata di farne parte e senza capire quanto anche in me ci fosse una sorta di crocerossina pronta a prodigarsi per sentirsi utile, mi sono allontanata da queste persone scocciata all’idea che parlavano solo loro e di me non chiedevano niente. In realtà il mio era solo ego ed un buon mix di ‘tu vali poco, fai la brava bambina ed ascolta il prossimo bisognoso, prodigati’. Non mi importava davvero mi chiedessero qualcosa, non avrebbero mai potuto darmi consigli costruttivi e nemmeno li cercavo da loro, ma non mi importava nemmeno quello che loro mi stavano dicendo in quel modo. Volevo solo farmi vedere che aiutavo perché mi dava tono. Con il passare del tempo ho ripreso la centratura e non puntavo più il dito all’esterno, guardavo sempre come facevano le persone, ma la domanda non era più ‘perché fanno così’, ma ‘perché tu glielo permetti? Quale parte di te ti tiene in quella dinamica?’ Ed ho capito quanto avessi il profondo desiderio di essere circondata da un gruppo di persone che sentivo compatibili a me, anche se non stavano facendo un percorso, o non si erano messe in gioco minimamente. Era come se l’ascoltarli al 100% e farli sfogare mi convinceva che servisse per farli evolvere e che avrebbero smesso a breve di fare quei papiri unilaterali, sentendomi anche un po’ presuntuosa ed importante nel pensare che ero un talento e gli volevo più bene rispetto a tutti gli altri che li abbandonavano. Quando dicevo a me stessa che non mi importava quello che mi dicevano e lo facevo solo per un buonismo, mi faceva sentire in colpa, ma non ero in grado di spiegarlo meglio. Ora sì. Certo che mi dispiaceva il loro vivere quelle dinamiche, vederli vittima di famiglie trasparenti da tutta la loro vita, però ero troppo oberata dalle mie menate irrisolte, dalla mia incapacità di schermarmi e dalla mia inesperienza per potere fare davvero la differenza per loro e per me. Poi ho capito che non era vero niente di quello che stavo capendo o ritenevo di avere capito e l’unica cosa che importava era il mio sentire: se mi sentivo o no di stare in quella condizione. Era difficilissimo fare questa cosa, prima non riuscivo proprio a distinguere dovere-cuore, poi ho imparato a farlo, ma ero comunque nel dovere-della-brava-amica-che-tace-ed-ascolta, poi è diventato solo cuore e ad oggi riesco a capire se lo faccio perché sono spinta da una causa maggiore, più autentica, o se è sempre il mio vecchio schema, non avendo ancora abbattuto del tutto la mia mente condizionata, a farsi sentire. Quando lascio entrare le loro parole perché li sento riesco anche a stopparli naturalmente senza che me ne accorgo e senza sentirmi in difetto o in colpa per l’interruzione, quando invece agisco ancora con un mentale ed ascolto per senso del dovere mi accorgo che sì lo faccio con consapevolezza, ma le mie parole, quando riesco a spingere per prendere il tempo e dare un parere onesto, in loro entrano molto meno rispetto a quando lo faccio di animo.
Gabriella poi appunto approfondisce il concetto di conoscenza di sé come chiave per distinguere il passato dal presente e per riconoscere la nostra aggressività repressa. Ricorda che sul Tempio della Madre Terra era inciso il celebre monito “Conosci te stesso” e sottolinea come la vera conoscenza richieda una predisposizione interiore. Aristotele stesso affermava che si può conoscere solo ciò che si possiede già dentro in forma latente.
Dentro di noi c’è tutto: l’occulto, l’astrale, la magia, l’ombra e la luce. Il nostro mondo interiore è anche il luogo in cui avviene la trasformazione alchemica. Gli alchimisti distinguevano infatti due vie: la via secca, mentale e maschile, veloce ma illusoria; e la via umida, interiore e femminile, più lunga e difficile, ma autentica. La prima giunge subito a conclusioni (anche sbagliate), la seconda ha bisogno di tempo, visioni, emozioni e ascolto profondo.
Fa anche riferimento a un aneddoto di Jung in cui i discepoli del maestro vogliono arrivare subito alla comprensione cercando il simbolo finale, ma è tutto il percorso, il viaggio, che dona vera conoscenza. Non basta arrivare alla meta: è il processo stesso che trasforma. Questo vale anche nello yoga mentale, dove il viaggio è la pratica trasformativa, non un traguardo esterno. Critica l’idea che l’età porti automaticamente saggezza. Il rispetto, dice, non deve derivare dall’età, dal ruolo o dall’autorità, ma dalla reciprocità: “ti rispetto perché tu mi rispetti”. Essere anziani non garantisce consapevolezza, perché l’esperienza è filtrata dai propri schemi, e solo chi ha fatto un lavoro interiore può trasformarla in vera conoscenza. La vecchiaia non va temuta né negata, ma accolta come un tempo prezioso, se vissuto con coscienza.
Gabriella riflette sul modo in cui gli adulti, specialmente gli anziani e i genitori, spesso proiettano i propri desideri e bisogni irrisolti sui figli, senza vedere davvero ciò di cui i bambini hanno bisogno. Questo accade in buona fede, ma è frutto di una mente condizionata che impedisce la reale comprensione dell’altro. Così, si finisce per offrire ai figli oggetti o attività – come tv o computer – più per tenerli buoni che per connettersi con loro, evitando il confronto con la propria inquietudine interiore.
Quando un genitore perde la pazienza, il minimo che può fare è spiegare al figlio che non è colpa sua, ma di una tensione interna. Se non lo fa, il bambino cresce sentendosi sempre sbagliato, e con un’autostima fragile. Sottolinea come sia la mente condizionata a distorcere la nostra percezione della realtà: vediamo ciò che ci è stato insegnato a vedere, non ciò che realmente è.
E su questo dovremmo mettere un manifesto, non ho ricordi di mio padre che mi ha chiesto scusa per qualcosa. L’unica volta è stata quella che in seguito ad un suo sclero mi ha picchiato esagerando e anche a distanza di giorni avevo qualche livido. Quelle sue scuse erano però sempre forzate e con la frase ‘ho fatto così perché tu’, senza davvero assumersi la responsabilità di non sapere ponderare. Lo stress quotidiano e lavorativo degli adulti lo capivo già dalla tenera età, ma ero stufa marcia del loro non riuscire a calmarsi.
Cita poi il filosofo Schopenhauer e il concetto del “mondo come rappresentazione”, e porta l’esempio dell’artista Fontana, celebre per aver tagliato la tela dei suoi quadri, rompendo la bidimensionalità della pittura tradizionale. Quel gesto, apparentemente semplice, simboleggiava un’uscita dai confini imposti: vedere “oltre”, oltre la tela, oltre la rappresentazione mentale della realtà. Così accade anche nel percorso interiore: quando la mente condizionata comincia a cadere, ci si accorge che il mondo non è piatto, ma tridimensionale, pieno di livelli e significati nascosti. Un’intuizione antica, già presente nella tradizione spirituale giapponese e in molti percorsi iniziatici.
Contrapponendo l’arte moderna a quella dell’antichità, Gabriella ricorda come le statue greche e romane, oggi viste come candide e neutre, fossero in realtà vivacemente colorate, perché all’epoca l’essere umano era più connesso con le emozioni e l’anima, e quindi sentiva il bisogno del colore. Oggi, al contrario, le emozioni sono filtrate dalla mente e si fa sempre più fatica a sentire davvero. Per stimolare qualcosa in noi, spesso ci affidiamo a film violenti o horror, ma non è un bisogno naturale: è un segno di una sensibilità anestetizzata. Le emozioni vere dovrebbero nutrire l’anima, non solo la mente. Torna a riflettere sul crescente processo di mentalizzazione della società, che, pur accompagnato da alcuni progressi legislativi, comporta un impoverimento delle emozioni e un allontanamento dall’anima. Questo fenomeno si riflette anche nell’arte: si è passati dall’arte figurativa, ricca di contenuti emotivi, all’arte astratta, che spesso esclude completamente le emozioni, soprattutto quando è priva di colore. La stessa tendenza si ritrova nell’architettura moderna, essenziale, lineare, senza fronzoli, dove si eliminano gli elementi decorativi che in realtà rappresentano la creatività.
LA DEA È MAGA (16)
Per comprendere la magia, bisogna partire dall’idea che il mondo stesso sia magico e che la natura sia una grande maga. Le antiche divinità erano spesso rappresentazioni di questa magia naturale, in particolare le divinità lunari, che precedettero quelle solari. Tra queste, Iside, dea egizia, era una potente maga. In origine, sia lei che Osiride erano divinità lunari e più antiche del dio solare Ra, ma col tempo furono fatti passare come suoi figli per affermare il dominio patriarcale.
Il mito racconta che Iside, desiderando ottenere il potere magico di Ra, doveva conoscerne il nome segreto. Ra si rifiuta, ma Iside, con l’aiuto dello Scorpione, lo mette in pericolo per costringerlo a rivelarlo. Questo mito esprime simbolicamente il passaggio del potere magico dalle antiche divinità maschili solari alla sapienza femminile magica e lunare. Iside riesce a ottenere la magia di Ra costringendolo a rivelare il suo nome segreto dopo averlo fatto pungere dallo Scorpione. Quando Ra cede e pronuncia il proprio nome, Iside acquisisce il suo potere magico. Questo tema del nome segreto riflette una visione tipicamente maschile e mentale della magia, secondo cui conoscere un nome equivale a dominare qualcosa. Lo stesso concetto si ritrova a Roma, dove si diceva che il nome segreto della città, se rivelato, avrebbe permesso a un nemico di conquistarla. Alcuni ipotizzavano che fosse “Amor”, cioè “Roma” al contrario, un’invenzione mentale affascinante, ma anche paradossale considerando le conquiste e le violenze compiute da Roma.
In realtà, l’idea del nome segreto rimanda a qualcosa di molto più profondo: il segreto della magia risiede nella parte nascosta di sé, nell’occulto interiore. Per questo le antiche dee, come Iside, ma anche Ecate, erano considerate grandi maghe. Dee trinitarie, capaci di dare la vita, nutrirla e toglierla, incarnavano il potere ciclico e creativo della natura. Ecate, per esempio, ha tre volti e porta con sé simboli come il falcetto, che esprime la forza trasformativa della morte come parte integrante del processo magico e vitale.
In questo intervento, Gabriella Tupini prosegue il suo discorso sulla magia come forza originaria, sacra e naturale, legata alla Terra e alla figura del femminile. Dall’alba dei tempi, nei riti pagani si usavano pane e vino come simboli del corpo e del sangue della Dea, prodotti offerti in comunione con la Natura, perché provenienti dalla Terra – quindi dal corpo stesso della Madre.
La Chiesa Cattolica ha ripreso e svuotato questo rito, trasformando la focaccia in ostia, il vino in sangue di Cristo, e rendendo il gesto un atto distaccato, persino cannibalico, senza un reale legame con la Terra. Poiché non riusciva a spiegarne il senso, lo ha chiamato “mistero” e ha inventato il concetto di “transustanziazione”. Quando la Chiesa non capisce qualcosa, dice Tupini, la trasforma in dogma o mistero.
La magia, invece, è comprensione profonda della realtà e connessione con il piano delle idee, la capacità creativa dell’anima. Per fare vera magia, l’uomo deve sviluppare sensibilità, accedere alla dimensione interiore e animica, diventare “un po’ donna”. Ma tutto ciò faceva paura: il potere sacerdotale temeva le maghe, le donne che sapevano usare le forze invisibili. Così la magia venne proibita da tutte le religioni monoteiste. Anche nella Bibbia, Mosè dice: “Non lascerai vivere la strega” – segno della pericolosità attribuita a chi deteneva un potere spirituale fuori dal controllo maschile. Critica l’ipocrisia religiosa che bollava la divinazione come superstizione, ma credeva ciecamente a leggende improbabili, come quella delle Quattro Fontane nate dal rimbalzo della testa mozzata di San Paolo. Un esempio della mentalità dogmatica e dell’allontanamento dal senso originario e sacro del mondo.
Approfondisce il concetto di mente condizionata come ostacolo alla vera magia e alla connessione con l’anima. Secondo lei, l’affermazione “Cogito ergo sum” di Cartesio – “penso dunque sono” – rappresenta un momento di decadenza dell’essere umano, in cui il pensiero ha sostituito il sentire, spegnendo l’anima e l’istinto.
La mente, creata per risolvere problemi pratici, è diventata iperattiva e ansiogena, genera problemi invece di risolverli. Si alimenta del continuo bisogno di controllo e previsione, creando un ciclo infinito di pensieri e false soluzioni. Questo ci allontana dal sentire profondo e dalla presenza nel corpo, fino a perdere la sensibilità fisica e spirituale, come nei casi estremi delle persone che non percepiscono caldo o freddo.
La magia è strettamente connessa al sentire e al mondo interiore, mentre la nostra società ha invece eletto il pensiero razionale – o meglio, la sua versione distorta – a unico strumento valido. Ma la mente che governa oggi è difensiva, rigida, illusoriamente razionale. Non è il vero logos, il principio divino e ordinatore. Il vero pensiero, quello lucido e creativo, è raro: ciò che domina è un pensiero automatico, ansiogeno e separato dall’anima.
Per ritrovare la magia e la verità del mondo dobbiamo uscire dalla mente condizionata e riscoprire l’anima, il corpo, le emozioni. Solo così possiamo tornare a “sentire” e non solo a “pensare di vivere”.
Quello che più mi ha toccato è come Gabriella Tupini riflette sul concetto di magia come forza naturale, creativa e femminile, radicata nell’anima e nella ciclicità della vita. L’anima secondo lei ha un disegno innato, un “codice” che contiene il nostro scopo profondo, come descritto anche da Hillman nel Codice dell’anima. Tuttavia, nel corso della vita, ci allontaniamo da quel disegno originario a causa delle pressioni esterne e della mente condizionata. E mi ha colpito in particolare modo questo perché la domanda impressa in me da immemore tempo è stata: ‘ho uno scopo nella vita? Perché sono qui?’ Tutto quello che facevo fino a pochi anni fa era volto alla sopravvivenza, cercando di fare più cose possibili per non sentire il malessere di essere costretta a guadagnare soldi in un lavoro che non mi appagava. Nonostante avessi sempre fatto lavori umili, come la commessa o l’addetta al magazzino, ho sempre avuto l’impressione che la mia estrema insicurezza mi bloccasse ad ambire ad altro, anche perché era un ‘altro’ non ben definito. Mi terrorizzava l’idea di rimanere in un lavoro bloccata 8 ore al giorno con l’aria compressa nei polmoni e le palle piene di noia, ma allo stesso tempo non riuscivo a capire cosa potesse essere per me. Non venivo capita perché intorno a me tutte le mie amiche o la mia fidanzata di turno mi dicevano: ‘va beh, lascia quel negozio, trovane un altro’, ed aveva senso, ma non riuscivo ad ammettere che il problema non era solo quel negozio o quel magazzino, ma tutti i posti di lavoro. Al bar non ci volevo andare, nei negozi nemmeno, in cassa al supermercato men che meno, imparare qualche professione tipo artigiana non sapevo cosa e poi non mi andava, lavorare in cucina o nella ristorazione odiavo cucinare e l’idea di servire la gente, lavorare con bambini o anziani non mi appagava abbastanza da mettermi in gioco e quindi ero in un loop dove non ci capivo dentro un cazzo. Mi sentivo anche viziata e pigra nello scorrere le offerte di lavoro come se fossi superiore, senza però conoscermi e sviscerare quelle parti di me che mi portavano alla mia vera natura. Questo penso sia una delle cose che porta più malessere, come vivere in un corpo che non senti tuo o obbligarti a stare con un uomo quando invece ti piacciono le donne (o viceversa). Cioè… lavorare ogni giorno della tua vita con la consapevolezza che stai buttando tempo prezioso in questa vita che scorre così veloce dà una sensazione atroce e me la dava talmente tanto già da prima che iniziassi il mio percorso di conoscenza e consapevolezza di me che facevo cappellate assurde tipo: lasciavo il posto di lavoro con la scusa che ero girata di palle (lo facevo spesso in magazzino, in negozio no perché se no avrei messo nei pasticci la mia collega essendo solo in 2 o 3. In magazzino invece eravamo in tante e la mia assenza non gravava su un altro essere umano), mettevo malattia per influenza e febbre quando era malattia di dover lavorare per minimo altri 30 anni in lavori umili che non sentivo miei, scrivevo continuamente lamentele di come mi sentivo bloccata in quel loop di lascio ‘sto posto di merda perché me ne voglio andare dall’altra parte del mondo, pianto tutto addio, ma lo facevo su pagine Facebook visibili da capi&co’ quasi in modo provocatorio e così via. Un favoloso giro tondo che mi portava lontana dal guardarmi dentro. Una volta che l’ho fatto, però, mica è stato subito immediato capire cosa fosse in linea con me e la parte difficile (e forse ancora non l’ho capito del tutto) era come unire passione e guadagno senza raccomandazioni o strada spianata. La cosa che trovo divina del mio percorso non è avere la soluzione tra le mani, perché appunto a volte è ancora difficile, ma aver capito quello che mi fa sentire grata di essere viva, ma non grata perché è giusto e figo dirlo, ma grata davvero. E penso sia uno step indispensabile per chiunque… la frustrazione che si capta nel vedere la gente che lavora dove non vorrebbe lavorare è impressionante. Non è affatto detto poi che ognuno di noi sia portato per un canale solo per tutta la sua vita, può tranquillamente esistere una persona che ama allo stesso modo due settori completamente opposti e che tra un mese o vent’anni si lasci trasportare da altro in base alla sua evoluzione. Questo arrendermi alla vita è quello che per ora posso dire mi ha dato la motivazione di alzarmi al mattino e già è una vittoria indescrivibile per me che ero la Queen indiscussa del: ‘che due coglioni’ appena sveglia, perché mi aspettava un doppio turno o semplicemente perché ero di riposo, ma il giorno dopo non lo sarei stata. Capire il valore del tempo che passa inesorabile mi ha dato quell’attitudine di usare ogni singolo secondo in modo a me affine e appena per ‘dovere’ o per ‘cause esterne’ qualcosa intacca il mio tempo divento sbrigativa perché quasi pretendo di tornare nel mio mood di ‘voglio fare solo quello che voglio fare’. È facile? Per niente. È appagante? Direi, è meraviglioso…
Nel mondo antico, la magia era il linguaggio della natura, incarnata nelle figure delle dee, tutte maghe, tessitrici del mondo e della vita. Il filo che tessevano rappresentava la connessione tra tutte le cose, un principio essenziale per comprendere l’interdipendenza del tutto, proprio come insegna anche la teoria della relatività di Einstein: tutto è relativo, tutto è in relazione.
Per la magia, ciò che conta è il rapporto tra le cose, e ogni atto ha delle conseguenze. Per questo la magia richiede consapevolezza, misura, responsabilità. Gli uomini dell’antichità si rivolgevano alle sacerdotesse – figure connesse alla dea e all’anima – per avere guida, perché esse detenevano il sapere e il potere spirituale, anche politico. Il potere maschile era trasmesso tramite il femminile, come dimostrano i miti e le dinastie egiziane.
Conclude infine dicendo che per capire davvero la magia dobbiamo osservare la natura, perché essa è maga: tutto ciò che fa è perfetto, ciclico e rivelatore. Per fare questo, bisogna accendere la lanterna interiore e seguire le orme della natura dentro di noi, superando la mente razionale e aprendoci a un sapere più profondo, radicato nel cuore e nell’anima.
“Anche un albero può insegnare, se lo si sa ascoltare.”
Questa sua frase conclusiva dalla prima volta che l’ho ascoltata mi ha emozionato da morire e la sento mia fino all’ultima goccia perché ad oggi appena mi immergo nella natura riesco a percepire sensazioni pazzesche di cui non avevo una ben che minima idea, essendo stata radicata in un mondo asettico e rumoroso. Persino i ricordi di come stavo bene da bambina o da adolescente in mezzo ai boschi si stavano spegnendo, vittima di una mia mentalizzazione sottona al denaro che se non avessi fermato mi avrebbe distrutto.